Tra pochi giorni, allo scadere dell’anno, circa 700 persone in semilibertà dovranno rientrare a dormire all’interno delle carceri, dopo che per due anni e mezzo hanno usufruito di licenze continuate che permettevano loro di trascorrere le notti a casa.

La semilibertà è una delle misure alternative al carcere che l’ordinamento penitenziario italiano prevede per detenuti che abbiano certi limiti di pena e che il magistrato abbia ritenuto idonei ad accedervi. In tempi ordinari, permette alla persona interessata di uscire di giorno dal carcere per recarsi al lavoro e farvi rientro alla sera.

Le misure alternative non significano incertezza della pena, ma certezza di una pena eseguita diversamente rispetto a quella carceraria. Una persona rinchiusa per anni e poi, arrivata all’ultimo giorno di pena, abbandonata di fronte al cancello del carcere è ben più probabile che tornerà a commettere un reato rispetto a chi ha avuto opportunità di riavvicinarsi con gradualità al mondo del lavoro e ad altri contesti sociali. Le misure alternative sono state pensate dal legislatore non in un attacco di buonismo bensì in un’ottica di protezione sociale, di lotta alla recidiva e di conseguente aumento della sicurezza esterna.

Con l’arrivo della pandemia, nel marzo del 2020, varie misure furono adottate per mitigare il forte stato di affollamento nel quale versavano le patrie galere. Anche in questo caso, nessun buonismo: lo scoppio di focolai penitenziari, facilmente atto a sfuggire di mano, avrebbe potuto comportare un grave appesantimento della sanità pubblica con conseguenze negative sulla popolazione libera.

Tra le misure adottate, la più banale fu quella di non far rientrare la sera in carcere chi in ogni caso già trascorreva l’intera giornata fuori. Ciò aveva l’effetto, da un lato, di evitare la commistione tra esterno e interno e, dall’altro, di liberare stanze e brande per collocarci le quarantene o anche solo chi viveva in sezioni rese rischiose dall’eccessivo affollamento. E tutto ciò senza rischiare di far uscire pericolosi criminali, visto che si trattava di persone che già varcavano la soglia tutte le mattine.

Qual è oggi il senso di farle tornare in carcere ogni sera? I numeri della popolazione detenuta sono in continua ascesa, abbiamo oggi 56.500 presenze per 51.300 posti ufficiali, che scendono a circa 47.000 se consideriamo le varie sezioni attualmente chiuse per manutenzione. In questi due anni e mezzo, le circa 700 persone in semilibertà hanno tenuto un comportamento corretto e non hanno fatto parlare di sé. Il mondo del carcere avrebbe ben altri problemi cui pensare: la triste conta dei suicidi continua anche in questa fine anno, nelle scorse ore si è aggiunto un uomo che si è tolto la vita nel carcere romano di Rebibbia a pochi mesi dal fine pena. Mai si era arrivati a queste cifre: abbiamo avuto 81 suicidi in questo 2022 quando lo scorso anno erano stati 58, quello precedente 61, quello ancora precedente 53.

Ci sarebbe da interrogarsi a fondo su tutto ciò. Mentre non si capisce invece da dove arrivi la preoccupazione di far rientrare in cella i 700 semiliberi, di farli tornare in carcere dopo due anni e mezzo di vita in famiglia e immersi nella società, con un comportamento che non ha creato alcun problema. Sradicarli da una già avvenuta integrazione sociale per ricondurli in un contesto detentivo e dunque per definizione separato. Se la pena deve tendere alla reintegrazione, ciò è privo di senso.

Si dirà dunque: ma hanno commesso un reato, devono scontare tutta la loro punizione ora che l’emergenza sanitaria è finita. Ecco, infatti: se la pena non è che vendetta è proprio così che deve funzionare. Ma non è questo che dice la nostra Costituzione. Siamo ancora in tempo, c’è ancora qualche giorno per poter disporre la proroga della misura. Ci auguriamo davvero un gesto di sensatezza.

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