L’allargamento della flat tax e i nuovi condoni previsti nella manovra del governo Meloni non comportano solo una perdita di gettito immediata per le casse dello Stato. “Hanno anche l’effetto di distorcere le scelte dei contribuenti”, avverte l’economista Giuseppe Pisauro, ex presidente dell’Ufficio parlamentare di bilancio e oggi numero uno del centro studi Nens. Nel primo caso li inducono a prediligere il lavoro autonomo senza altre motivazioni se non quella di godere del trattamento fiscale di favore. Nel secondo caso, lanciano ancora una volta il messaggio che non pagare conviene. “Ma queste distorsioni hanno un costo, comportano un danno per l’intero sistema”.

Professore, come si manifesta questo danno?
Più si allarga il regime forfettario per gli autonomi, come si è fatto con l’innalzamento del tetto dei ricavi da 65mila a 85mila euro, più si amplia il divario tra loro e i dipendenti. Al di là degli evidenti problemi di equità orizzontale tra contribuenti, in questo modo chi può farlo sceglierà di lavorare a partita Iva solo per beneficiare dell’aliquota del 15%. Questo non ha solo effetti negativi sul gettito, ma modifica anche l’assetto dell’economia facendole perdere efficienza.

In che modo?
Un’impresa che organizza un certo numero di dipendenti è più efficiente di un gruppo di autonomi che collaborano attraverso contratti. Infatti esiste una correlazione tra quota di autonomi sugli occupati e crescita della produttività. In Italia quella quota è già eccessiva – il doppio che in Francia e Germania, il triplo che negli Usa – e non a caso la produttività italiana nel comparto dei servizi è così bassa. Aggiungo che aumentare la convenienza del lavoro a partita Iva ha effetti sfavorevoli anche in altri settori: per esempio incentiva i medici a lavorare “a gettone” invece che essere impiegati in ospedale con un contratto.

Tornando all’impatto sul gettito, il centrodestra da sempre teorizza che la flat tax generalizzata si “ripagherebbe da sola”.
È una sciocchezza. La relazione tecnica della manovra mostra che anche questo piccolo allargamento è costoso. L’ipotesi si basa sulla “curva di Laffer“, stando alla quale superato un certo livello di imposizione il gettito invece che crescere tende a diminuire. Per cui abbassando le aliquote si dovrebbe ottenere l’effetto opposto. Il punto è che non c’è nessun riscontro empirico che ciò avvenga al livello attuale delle aliquote. Al contrario: la cedolare secca al 21% e al 10% sugli affitti, per esempio, in base a molti studi ha sì ampliato la base imponibile, ma il guadagno per l’erario è stato inferiore alla perdita causata dalla minore aliquota.

Come giudica invece le misure per il lavoro dipendente?
Detassare pezzi della retribuzione induce le imprese a “mascherarli” da premi di produttività o altri compensi aggiuntivi che godono di quel trattamento. In alcuni il risultato, non so se voluto, è che il dipendente ne risulta danneggiato. Penso all’imposta al 5% sulle mance. In Italia per definizione la mancia viene lasciata in contanti e dunque non è dichiarata: annunciare una detassazione significa indurre il datore di lavoro ad accordarsi con il cameriere per versargli il 25% dello stipendio sotto forma di “mancia”. Su cui non paga i contributi. Così il lavoratore si ritroverà con una pensione ancora più bassa.

Se i mini interventi per singole categorie sono distorsivi perché si continua su questa strada?
Perché di spazio per ridurre davvero la pressione fiscale non ce n’è. Nel 2019 era al 42,9% pil, lo stesso livello del 2000, nonostante annunci e promesse dei diversi governi. E la situazione attuale è che la Nadef prevede nel prossimo triennio una riduzione della spesa nominale per redditi da lavoro dipendente e consumi intermedi, che in termini reali – con l’inflazione attuale – si tradurrebbe in un taglio di circa 40 miliardi. Ci saranno pressioni perché si trovino le risorse per mantenerla almeno costante, anche se questo renderà più complicato raggiungere l’obiettivo di una riduzione di 4 punti del rapporto debito/pil. Certo, basterebbe aggredire in modo serio l’evasione. Ma non mi sembra si vada in questa direzione.

Si riferisce a stralcio delle cartelle, nuova rottamazione, definizioni agevolate e aumento del tetto al contante?
Negli ultimi decenni di misure di questo tipo ne abbiamo viste molte. Il messaggio è che conviene non pagare e aspettare, per cui – anche qui – l’effetto va oltre la perdita di gettito immediata. E a prima vista questi interventi non sono compatibili con la riduzione dell’evasione prevista dal Pnrr. È cruciale rafforzare l’incrocio delle banche dati, invece si va verso una riduzione della quota di pagamenti tracciati.

Una buona fetta di coperture della manovra arriverà dalla mancata indicizzazione delle pensioni “alte”. Era necessario?
Per quanto possibile il valore reale degli assegni andrebbe preservato. Invece si è deciso di andare a colpire l’adeguamento all’inflazione già a partire da livelli relativamente bassi, 2mila euro lordi…sarebbe stato preferibile un intervento meno doloroso. Per il resto, quota 103 non la capisco: la platea coinvolta è molto piccola, per consentire flessibilità in uscita avrei cercato soluzioni. Servirebbe un ragionamento di fondo sul fatto che la speranza di vita non è uguale per tutta la popolazione: un reddito elevato e altre variabili che lo influenzano, come il titolo di studio, la aumentano. Chi ha un’aspettativa più bassa dovrebbe poter uscire prima dal lavoro o avere una pensione più alta.

I giovani con contratti brevi e discontinui sono destinati a diventare pensionati poveri?
Bisogna contrastare il più possibile la precarietà, regolando di più il mercato del lavoro. Limitare alcune forme di somministrazione. E introdurre il salario minimo.

Il governo fa cassa anche sul reddito di cittadinanza.
Di sicuro ha dei difetti da correggere. Ma tutti i Paesi avanzati hanno una misura di ultima istanza di questo tipo e nessuno prevede che duri solo otto mesi. Invece che individuare in modo molto rozzo i potenziali occupabili, la cosa importante è evitare la cosiddetta “trappola della povertà“, cioè la situazione in cui al beneficiario non conviene accettare un lavoro perché guadagnerebbe lo stesso o poco più di quel che incassa con il sussidio. In manovra è previsto che nella prima fase il reddito si possa cumulare con un massimo di 3mila euro di compensi da lavoro stagionale: meglio sarebbe stato ridurre l’aliquota marginale che colpisce i percettori. In generale, per riformare la misura ripartirei dalle dieci proposte fatte lo scorso anno dalla commissione guidata da Chiara Saraceno.

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