“Nessun funzionario della Repubblica Islamica ha detto che la polizia religiosa è stata chiusa”. L’affermazione, lapidaria, è arrivata nelle ultime ore dai canali di Al Alam, tv di stato iraniana in lingua araba, ascoltata nelle regioni arabofone del sud ovest del Paese, che ha aggiunto come da parte dei media occidentali sia in corso “un tentativo di far passare le dichiarazioni del procuratore come il segnale di un arretramento della Repubblica Islamica in materia di hijab e castità“. Non una vera e propria smentita ma una presa di distanza, forse stimolata anche da quel contesto di guerra di propaganda che tende a far asserragliare esponenti del regime su posizioni di irriducibilità, funzionali a una percezione di compattezza.

Perché quando si parla di Iran, negli ultimi 40 anni, è sempre, anzitutto, una questione di reciproche percezioni. Così, quando gran parte dei quotidiani occidentali ha rilanciato la notizia – desunta da alcune dichiarazioni del procuratore generale della Repubblica islamica, Jafar Muntazeri, lo scorso 4 dicembre – della “chiusura” della Gasht-e Ershad, il programma di “pattugliamento della morale” della polizia iraniana, due diversi “filoni” di smentita hanno saturato il dibattito.

Quelle provenienti dai sostenitori o dai membri della Repubblica Islamica, preoccupati che la notizia potesse aprire uno squarcio nella coesione del regime o che fosse un apripista per ulteriori, inesorabili concessioni da parte di un sistema in difficoltà, e quelle provenienti dai più accesi oppositori, preoccupati che la notizia potesse essere percepita come l’approdo finale della protesta in corso da quasi tre mesi. La verità, in un certo senso, sembra stare nel mezzo. E quel che è accaduto in questi giorni da un lato nasconde un cambiamento meno concreto di quel che sembri, dall’altro promette di stimolare nel medio termine un cambiamento più visibile.

Cosa è accaduto? Anzitutto va chiarito il contesto e va chiarita la posizione dei personaggi coinvolti. Tre giorni fa, durante una conferenza stampa, un giornalista ha chiesto al procuratore Muntazeri il motivo per il quale negli ultimi tempi le pattuglie della Gasht-e Ershad “non si vedono più granché in giro”. Muntazeri, che dipende dal potere giudiziario, ha risposto che quest’ultimo “continua a monitorare il comportamento nella società, perché l’hijab è una questione importante”, che le pattuglie “non riguardano gli affari della magistratura” e soprattutto che la polizia “ha deciso di lanciarle, così come di chiuderle (interromperle, ndr)”.

Similmente all’Italia, le attività della polizia in Iran fanno riferimento al ministero degli Interni, integrato dalle disposizioni del Consiglio della Rivoluzione culturale. La Gahst-e Ershad, tecnicamente, non deve essere “sciolta” o “chiusa”: infatti si tratta, come accennato, di un programma gestito dalla polizia che può essere interrotto o meno e che si serve del personale della polizia stessa e non di una unità speciale. In un certo senso, più che a un corpo specifico, è speculare a “Strade sicure”, con la differenza che viene appunto portato avanti dal 2005. Prima di questa data, il controllo informale del dress code nelle città iraniane era ad appannaggio di diverse figure, primi tra tutti Komite. Le dichiarazioni del procuratore riflettono quelle di un magistrato a proposito di una questione di competenza di altri ministeri.

La domanda posta dal cronista a Muntazeri nasconde una parte della risposta: sullo sfondo di un clima di rivolta in decine di città iraniane, la “polizia religiosa” si vede poco in giro e dal punto di vista numerico è rimpiazzata soprattutto dalle forze di sicurezza, impegnate nella repressione. Questo fa presagire la modifica della legge sull’hijab obbligatorio, come immaginato da molti? Forse è presto per dirlo e d’altronde non deve essere commesso l’errore di ricondurre i posizionamenti dell’arena politica iraniana alla dicotomia tra “favorevoli al velo” e contrari: l’attuale Parlamento iraniano vede una maggioranza di principalisti, considerati più oltranzisti degli ormai indeboliti riformisti, ma non necessariamente ripiegati sulle stesse posizioni in materia sociale (molto di più in politica estera, ndr).

Lo stesso Muntazeri, proveniente dall’Associazione del clero combattente (jâmeʿe-ye rowhâniyat-e mobârez), formazione politica che potremmo considerare vagamente “di destra”, e che non va confusa con la speculare – poiché di orientamento riformista – Associazione dei Chierici combattenti (Majma’-e rowhāniyūn-e mobārez), ha più volte espresso perplessità nei confronti della “polizia religiosa”, pur dichiarandosi a favore dell’obbligatorietà del velo. Anche diversi parlamentari iraniani – che tra 15 giorni probabilmente saranno chiamati ad esprimersi su temi strettamente connessi, come accennato anche dallo stesso Muntazeri – di orientamento conservatore hanno posizioni simili, come ad esempio Jalal Rashidi Koochi che nei giorni successivi alla morte di Mahsa Amini aveva dichiarato come la Gasht-e Ershad fosse “dannosa” per il paese.

Lo stesso 4 dicembre, alcuni esponenti del blocco riformista guidati da Azar Mansouri hanno incontrato il Capo del Consiglio Supremo di Sicurezza nazionale, Ali Shamkani, portando una serie di proposte di breve, medio e lungo termine per “ridurre la distanza” tra Stato e società civile, tra cui rimozione del ban sui principali social media (ai quali gli iraniani oggi accedono tramite Vpn, ndr), abolizione dei pattugliamenti della Gasht-e Ershad e emendamenti alla Costituzione.

Il problema, tra gli altri, sta anche nel fatto che farsi carico di un eventuale cambiamento della legge sull’hijab – per ragioni ideologiche, culturali e storiche – non entusiasma particolarmente nessun blocco parlamentare. Un conto è la prassi e un altro è la normativa: nella prassi la polizia religiosa da un paio di mesi si vede “molto poco in giro”, nella pratica la norma rimane, ed il programma di pattugliamento può essere ripristinato in modi, tempi e forme diverse (ad esempio attraverso l’esclusione da uffici o università). Una situazione per certi versi simile a quella che riguarda l’applicazione di alcune pene “hudud“, come la lapidazione, che è ancora presente nel codice penale ma che non si applica da decenni (tendenzialmente in aree limitate e rurali).

Al momento, non esistono documenti ufficiali in grado di dimostrare l’estinzione delle attività di pattugliamento e non è detto che essi siano necessari, all’atto pratico. I pattugliamenti possono non sussistere più ma allo Stato rimangono diverse opzioni per esercitare controllo sociale: attraverso la citata esclusione da eventi, lavori e università, ma anche attraverso un processo di delega, a cui in passato si è accennato.

Non va infatti dimenticato come in un documento fatto circolare lo scorso anno tra i ministeri iraniani si prendesse atto della “contrarietà della maggioranza degli iraniani all’hijab obbligatorio” e si delineassero tre scenari: il primo, non augurabile per gli estensori del documento, di abolizione dell’hijab obbligatorio; il secondo, di prosecuzione della attuale linea; il terzo, di rafforzamento dei pattugliamenti attraverso la “delega” ai datori di lavoro, spinti in questo modo alla “delazione”. È possibile che il regime abbia scelto o stia pensando di scegliere una via intermedia, utile a prender tempo: delega ai datori di lavoro, nella consapevolezza che l’invito potrebbe essere raccolto in modo assai parziale, e timidi tentativi di riconoscere l’esistenza di una dialettica con i manifestanti, ormai impossibili da ignorare. Anche il solo fatto che la prassi stia cambiando, al di là della normativa, costituisce una piccola vittoria per la piazza che mai aveva ottenuto alcunché nelle passate proteste.

Secondo l’analista Ali Alfoneh, il ridimensionamento della Gasht-e Ershad dipende dalle Guardie della Rivoluzione (Irgc) che la riterrebbero la causa diretta delle proteste ed avrebbero chiesto il suo smantellamento. Una postura che secondo Alfoneh nasconde una grande frattura col “clero” sciita e che per questo prefigurerebbe uno scenario in cui gli stessi Irgc, nel medio termine, potrebbero ridimensionare il ruolo dei chierici (Alfoneh parla addirittura di purghe ed esecuzioni di una serie di religiosi, ndr), aumentando le libertà sociali, riducendo quelle politiche, dando luogo insomma a una dittatura militare che permetterebbe loro di “guadagnare una decina di anni”.

Anche questa appare più come una speculazione, soprattutto se si considerano i legami organici tra diversi esponenti dell’Irgc con una serie di figure religiose che spesso costituiscono i “tramite” con alcuni segmenti della società civile. In ogni caso, questi giorni di confusione hanno riportato alla luce un aspetto sottovalutato: che le prospettive di cambiamento in Iran (e la loro percezione) passano anche per il modo in cui i media occidentali, in “contrasto” con quelli iraniani, le raccontano, stimolando una serie di reazioni e riposizionamenti. E che queste reazioni e questi riposizionamenti segnalano il fatto che, al di là di come i media occidentali tendono tradizionalmente a “promuovere” le proteste in Iran, le autorità riconoscono l’esistenza di criticità quasi del tutto endogene.

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