Domenica 28 ottobre 2018, i brasiliani votarono al secondo turno delle elezioni presidenziali. La vittoria di Jair Bolsonaro, candidato liberale, fu nettissima con il 56 percento dei suffragi. Dodici punti più del rivale, Fernando Haddad, già sindaco di San Paolo e ministro dell’Istruzione, candidato del Partito dei Lavoratori degli ex presidenti Lula da Silva e Dilma Rousseff. Domenica scorsa le parti si sono invertite, ma con uno scarto ridottissimo: 50,9 percento, più di 60 milioni di voti, per Lula contro i 58 di Bolsonaro, fermo al 49,1 percento.

La partecipazione democratica è stata straordinaria, attorno all’ottanta per cento, un miraggio per le democrazie occidentali; e le schede bianche o nulle sono state più o meno le stesse del primo turno, attorno al 4 e mezzo percento.

Nel ballottaggio, Bolsonaro ha raccattato sette milioni di voti in più, mentre Lula ne ha racimolati soltanto tre più di quanti avuti al primo turno. quando la Terza via della Simone Tebet, centrista e liberale, e i socialdemocratici di Gomes, entrambi di ispirazione liberista, avevano raccolto in tutto più del 7 percento dei consensi. La redistribuzione dei loro 8 milioni e mezzo di voti era decisiva nel ballottaggio, assieme a quella delle frange minori. A questo proposito, la lezione brasiliana è chiara: piuttosto di accettare una visione laburista e ambientalista, i liberali e i liberisti tifano per gli ultra conservatori, i neoliberisti a oltranza, i nichilisti climatici, i Bolsonaro. E non accade soltanto in Brasile.

Il 25 ottobre, pochi giorni prima del ballottaggio, il settimanale scientifico Nature aveva pubblicato un editoriale di fuoco: un secondo mandato di Bolsonaro avrebbe rappresentato una “minaccia per la scienza, la democrazia e l’ambiente”. Una forte discesa in campo da parte della comunità scientifica, motivata da un giudizio senza appello: “Bolsonaro è entrato in carica negando la scienza, minacciando i diritti dei popoli indigeni, promuovendo le armi come soluzione ai problemi della sicurezza e spingendo un approccio all’economia della crescita a tutti i costi. Bolsonaro è stato fedele alla sua parola. Il suo mandato è stato disastroso per la scienza, l’ambiente, il popolo brasiliano e il mondo”.

A differenza di Bolsonaro, Lula non ha cercato di combattere i ricercatori. Se eletto, si è impegnato a raggiungere un tasso “zero netto” di deforestazione, a proteggere le terre indigene, a combattere la povertà di un paese dove il cinque per cento della popolazione sopravvive con meno di due dollari al giorno. Lula non è certamente senza peccati, avendo trascorso 19 mesi in carcere a seguito di una indagine sulla corruzione che aveva coinvolto funzionari governativi e leader del suo partito. E quella condanna era stata annullata nel 2021, lasciando un segno profondo.

Nessun leader politico si è mai avvicinato alla perfezione, da cui Lula è ben lontano. Ma gli ultimi quattro anni vissuti dal Brasile hanno mostrato all’umanità ciò che accade quando i governi che eleggiamo democraticamente smantellano le istituzioni rivolte a ridurre la povertà, proteggere la salute pubblica, promuovere la scienza e la conoscenza, salvaguardare l’ambiente, sostenere la giustizia.

Lo scorso settembre, Carbon Brief ha pubblicato un rapporto congiunto della Università di Oxford, dell’Istituto Internazionale per l’Analisi dei Sistemi Applicati e dell’Istituto Brasiliano per la Ricerca Spaziale. La ricerca mostra come il tasso di deforestazione dell’Amazzonia possa ridursi quasi del novanta percento con l’elezione di Lula, se la sua politica ambientale continuasse fino al 2030. L’applicazione del Codice Forestale Brasiliano, legislazione di punta del paese contro la deforestazione amazzonica e per la salvaguardia degli ecosistemi, largamente inapplicata da Bolsonaro ma cara a Lula, può limitare la distruzione delle foreste, contribuendo anche alla riduzione delle emissioni di gas serra.

Certamente, Lula non salverà il mondo, ma non accelererà la corsa del riscaldamento globale. Su questo nodo, critico per l’umanità intera, il resto del mondo sta prendendo posizione assai avverse all’Occidente, accusato da tutti di aver creato il problema e da Putin di pretendere il controllo di tutte le risorse naturali del pianeta per proteggere e perseguire all’infinito il proprio stile di vita. Un giudizio che noi rifiutiamo a priori, tanto da alimentare una guerra per procura, ma che trova enormi consensi fuori dell’Occidente, come testimonia l’ultima sessione plenaria delle Nazioni Unite. Paradossalmente, Bolsonaro era un buon alleato del russo, in sintonia perfino in tema di risorse. Ma, sullo stesso tema, Lula non sembra intenzionato ad alterare l’armonia dei paesi emergenti, il cosiddetto gruppo dei BRICS: Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica. Semmai, a rafforzarne la coesione verso politiche comuni sulle risorse naturali e la salvaguardia dell’ambiente.

Felipe Neto è l’influencer con 17 milioni di follower su Instagram che quattro anni fa aveva agevolato sui social la rivoluzione conservatrice di Bolsonaro. Neto aveva cambiato idea, affermando mesi fa che “non esprimere la propria avversione al presidente equivalesse a sostenere tacitamente un sistema fascista”. Domenica scorsa, a urne aperte, salutava così il proprio pubblico di YouTube: “Oggi è un giorno speciale per la storia di questo paese, il giorno in cui rinnoviamo la speranza per il Brasile che può sbarazzarsi dell’età oscura che abbiamo vissuto”. A urne chiuse e concluso lo spoglio, ha twittato: “Adesso vado a dormire con la migliore sensazione del mondo”. Domani è un altro giorno, si vedrà.

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