Sarà perché sono reduce da uno dei viaggi più belli di sempre a Disneyland Paris, sarà che sono cresciuta con i classici d’animazione Disney, ma faccio fatica a capire la scelta di fare un live action su La Sirenetta con una protagonista così estremamente distante dall’originale. Assodato il fatto che le sirene siano creature fantastiche, e che pertanto potrebbero essere bianche, nere, gialle e persino arcobaleno, resta il fatto che è stata proprio la Disney – nell’ormai lontano 1989 – a presentarci Ariel con i suoi lunghi capelli rossi e la pelle bianca come il latte, una giovanissima sirena curiosa del mondo fuori dal mare che fa innamorare l’umano principe Eric coi suoi grandi occhi azzurri.

Ho seguito la produzione di questo live action sin dalle prime scarne notizie sull’argomento, anche perché ho saputo subito che sarebbe stato girato in Sardegna (e dove, altrimenti?!), con la mia splendida isola che farà da cornice a questa favola senza tempo. Sapevo anche della scelta di far interpretare Ariel all’attrice Halle Bailey, bellissima, ma decisamente poco somigliante all’immagine che tutto il mondo ha della Sirenetta Disney, dato che l’attrice in questione è di colore.

La domanda è subito sorta spontanea: perché? Io sono estremamente sensibile al tema dell’inclusione e dell’uguaglianza tra esseri umani, ma qui la questione è molto più complessa e non c’entra nulla col razzismo, scomodato dai soliti webeti. A mio avviso, certe scelte così forzate finiscono quasi sempre per avere l’effetto contrario. L’idea di puntare sul politically correct a tutti i costi sta diventando un vero problema per la Disney, che rischia di opacizzare anni di luminosa produzione. Stesso scivolone è stato fatto nel live action di Pinocchio, in onda in questi giorni su Disney+, in cui la Fata Turchina viene interpretata da un’attrice di colore. Scelta, anche questa, che risulta estremamente fuori luogo, se pensiamo a come la stessa Disney ci abbia fatto conoscere una Fata Turchina ben diversa.

Ora, dico io, se proprio tu ci hai proposto determinati personaggi, con determinate caratteristiche fisiche, che peraltro hai abbondantemente riproposto in tutto il merchandising a tema, in ogni bambola, in ogni foto o immagine esistente sull’argomento, perché cadere nell’assurdo cliché del buonismo ad ogni costo e annacquare un sogno? Che tipo di messaggio dovrebbe dare il fatto che, in un live action prodotto e creato proprio da chi ha diffuso una certa immagine della protagonista, la Sirenetta non è più quella con la quale siamo tutti cresciuti, ma è una donna completamente diversa? Dovrebbe forse far dire a tutti: “Wow, che bravi quelli della Disney, non sono razzisti!”.

Trovo tutto questo abbastanza stucchevole e per nulla utile. Anzi, ritengo che la comunità di colore potrebbe sentirsi persino offesa per questi richiami alla loro cultura senza senso, una specie di triste contentino che dovrebbe farli sentire accettati nello sfolgorante mondo dei bianchi fighi e pure altruisti.

Se per anni hai scelto di rappresentare un mondo fatto di persone dalla pelle chiara, il fatto di mutare le fattezze di un personaggio ormai storico, amatissimo e presente in ogni libro, t-shirt o zaino dei nostri figli, non ti ergerà improvvisamente a paladino dell’inclusione. Servirà solo a rovinare un sogno, a mutare un’immagine che peraltro fa parte della storia delle produzioni Disney. Per completare il quadro proporrei una Pocahontas interpretata da Scarlett Johansson e Lupita Nyong’o nei panni di Elsa di Frozen.

La speranza è che queste proposte vengano ignorate più di Di Maio in politica. Certe scelte forzate e infelici risultano ancor più fastidiose perché in tutti questi anni la Disney ha davvero allargato la prospettiva, comunicando realmente inclusione e uguaglianza, e lo ha fatto quando ha deciso di raccontare mondi e culture estremamente diversi tra loro: come ne La principessa e il ranocchio, in cui viene posto l’accento sulla cultura afroamericana, attraverso un viaggio bellissimo tra musica soul e tradizioni millenarie; oppure con Oceania, che ci ha dato l’opportunità di scoprire la meravigliosa cultura polinesiana; per finire con Encanto, in cui ci siamo immersi nel colorato e vorticoso mondo di Mirabel e della sua straordinaria Colombia.

A ben vedere si può essere inclusivi e trasversali senza per forza snaturare personaggi o storie già scritte. Tutto ciò che serve è solo il coraggio di essere fedeli a se stessi, la coerenza e il rispetto per tutta una lunga storia di film d’animazione che hanno segnato l’infanzia di milioni e milioni di bambini. E, notizia delle notizie: i bambini non hanno malizia e non conoscono affatto il significato di razzismo o discriminazione, quindi tutto ciò che viene fatto con la scusa di insegnare a loro cos’è l’inclusione non è altro che un ridicolo tentativo degli adulti di lavarsi la coscienza e tra l’altro, nel goffo tentativo di azzerare le differenze tra razze e culture diverse, si finisce invece per evidenziarle ulteriormente, proprio agli occhi dei bambini.

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