Che insopportabile la litanìa celebrativa dei media nostrani – non vi dico la Rai tv, non oso immaginare i canali Mediaset (ammetto il pregiudizio…) da me trascurati, ma sono in Francia – per non parlare della istantanea beatificazione post mortem dedicata alla defunta Elisabetta II, per alcuni “l’Ultima Regina”: già sembra il titolo sequel per Helen Mirren che interpretando The Queen ha vinto l’Oscar!

Elizabeth Alexandra Mary Windsor, classe 1926, ha regnato sette decenni, che sono un gran pezzo di storia contemporanea, e lei l’ha attraversata stando in prima fila, quale spettatrice interessata, essendo simbolo (e non solo) del potere britannico, dei suoi tornaconti globali, incarnato in un trono e in una dinastia spesso al centro di roventi polemiche, per via di discutibili atteggiamenti e comportamenti non proprio regali dovuti a una famiglia piuttosto vivace e controversa, infiorettata di scandali e gossip. Elisabetta II, conservatrice per valori familiari, religiosi e morali, ha sopportato il disdoro compensandolo con ammirevole senso del dovere, e sapiente uso dei mezzi di comunicazione, al punto da diventare assai popolare, nonostante certe cadute di stile, per esempio i tentativi di proteggere da occhi indiscreti il patrimonio dei Windsor (la mitica Royal Firm), e di tutelare i suoi oculati investimenti. Fu il Guardian a svelare che all’inizio degli anni Settanta la sovrana aveva fatto pressioni perché fosse varata una legge in questo senso. Dimostra che accanto all’immagine di regina equilibrata e saggia, impegnata nel sociale (era patrona di 600 enti e organizzazioni di beneficenza, era ambientalista e animalista, sostenne Nelson Mandela nella battaglia contro la discriminazione razziale), c’è quella meno nota di chi protegge accortamente i propri affari.

E tuttavia Elisabetta ha lasciato memoria molto positiva di sé, perché ha saputo coniugare tradizione britannica a modernità, mai lasciandosi travolgere dall’incalzare del progresso sociale, economico e tecnologico. Anzi, seguendoli e apprezzando i protagonisti della rinascita britannica, onorando col titolo di baronetti gruppi rock come i Beatles, o innovatrici della moda come Mary Quant, o dell’english style (l’ingegnere Alec Issigonis creatore dell’immortale Mini). Non a caso, tra i primi a twittare un tributo a Elisabetta sono stati i Rolling Stones, che alle 20 e 49 di ieri sera hanno espresso la loro più “profonda simpatia” nei confronti della sovrana, “una presenza costante” nella vita della famiglia reale come in quella “di innumerevoli altre”. Come quella di Elton John: “La regina Elisabetta ha fatto parte della mia vita, dalla mia infanzia ad oggi, lei mi manca di già”. Regina pop.

Ma vale comunque la pena fare una carrellata dei messaggi più “titolati”, ossia i messaggi di cordoglio dei capi di Stato, dei primi ministri, dei re che hanno avuto occasione di conoscere e apprezzare la misurata compostezza diplomatica di Elisabetta. Tra i primi segnalo quelli di India e Pakistan, nati dalla sanguinosa Partizione dopo il ritiro degli inglesi nel 1947. In particolare, vorrei citare il primo ministro indiano Nerendra Modi, che si è detto profondamente addolorato dalla scomparsa di colei che era salita al trono nel 1952, diventando la prima sovrana a non avere regnato sull’Impero Anglo-Indiano (il British Raj). Per Modi, Elisabetta è stata “una guida ispiratrice per la sua nazione e il suo popolo”, e anche rispettosa delle altre culture. Modi infatti ha ricordato un incontro tra dirigenti inglesi e indiani, in cui la regina gli aveva mostrato un fazzoletto che le aveva donato il Mahatma Gandhi, in occasione del suo matrimonio, nel novembre del 1947. Un gesto, secondo Elisabetta, che simbolizzava la dignità e il pudore nella vita pubblica.

Tra i tanti, segnalo l’ex presidente americano Barack Obama. Il suo è un saluto espressivo. Definisce la regina per la “grazia, l’eleganza e un senso del dovere inalterabile”. Di più: “Lei aveva l’orecchio attento, rifletteva strategicamente ed è stata all’origine di considerevoli successi diplomatici”. Dribblando gli inevitabili luoghi comuni che infieriscono le nostre letture in queste circostanze, riferisco che Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, ha sottolineato come la regina britannica sia stata “testimone della guerra e della riconciliazione in Europa e altrove, e delle trasformazioni profonde del nostro pianeta e delle nostre società”.

Come in un puzzle la personalità di Elisabetta sarà spezzettata in centinaia di tessere, ognuna delle quali capitoli di un romanzo complesso e talvolta criptico. Fin da quando salì al trono, lei è stata al centro del morboso interesse mediatico, e con lei tutta la avventurosa (per usare un eufemismo…) famiglia. Una tribolazione costante. Come dimenticare la tragedia di lady Diana e il criticato e criticabile silenzio della sovrana, sino al suo dietrofront, più obbligato che sentito. Non sto qui a ripercorrere la vicenda, ancor oggi vivissima nell’opinione pubblica e soprattutto nei settimanali che di recente hanno celebrato i venticinque anni dell’incidente mortale nel tunnel Pont de l’Alma, sul Lungosenna parigino, alle 00.23 del 31 agosto 1997. Solo il 5 settembre la regina e il principe consorte Filippo ruppero il loro silenzio uscendo all’esterno di Buckingham Palace per parlare con le persone in lutto, e a osservare le migliaia di omaggi floreali che tappezzavano le ringhiere. Quei giorni furono il momento più basso della sua popolarità: lo superò lentamente, con determinazione. E con perseveranza, miscelando forte carattere, ironia, e pure altro. Come quando rimproverò Berlusconi disapprovandone la cafonaggine. Successe al G20 di Londra del 2009, appena scattata la rituale foto di gruppo. Berlusconi, per attirare l’attenzione di Obama, urlò: “Mr. Obama! E’ Berlusconi!”. Elisabetta lo fulminò davanti a tutti gli altri leader: “Perché deve parlare così forte?”.

In ultima analisi, nel corso dei decenni la regina Elisabetta ha rappresentato la magnifica e contraddittoria Inghilterra. Da giovane aveva occhi dolci, pieni di fiducia e gioia profonda. Nel 1945 si arruola al Servizio Ausiliare Territoriale, numero di matricola 230873, la addestrano a guidare ambulanze e camion e a lavorare come meccanico. Ha sempre voluto aiutare i londinesi che subivano i tremendi bombardamenti nazisti. E quando la guerra finì, volle andare con la sorella per le strade di Londra, a festeggiare con la gente, a provare l’entusiasmo del “suo” popolo. Negli ultimi anni, utilizzando proficue strategie di comunicazione, fece trasformare gli eventi che riguardavano la famiglia in show globali: il matrimonio del principe William con la borghese Kate divenne lo spettacolo Royal Wedding, seguito in diretta dalle televisioni di tutto il mondo, due miliardi di audience: ossia numeri più da business che da fiaba.

Fu narrata la favola della storia d’amore tra il bel principe e la ragazza del popolo, sia pure ricchissima ma con i nonni proletari, minatori del Galles, “facce nere” consumate dalla fatica e dalla silicosi. Pura soap opera. L’amore supera ogni differenza sociale. Annulla le diversità, a cominciare dal linguaggio (in Inghilterra una frontiera identitaria). Elisabetta, che non aveva mai nascosto la sua simpatia per William (lo avrebbe voluto re al posto dell’erede Carlo), accolse Kate e non la osteggiò, certa che non avrebbe deluso le attese. Tanto William è corretto, serio e responsabile, quanto lei sta dimostrando che è all’altezza (pardon, Sua Altezza…) del difficile ma non impossibile compito.

In verità il coro non è sempre intonato sullo spartito reale. Lo storico e accademico Tony Judt non ha mai nascosto le sue critiche alla gestione della “Famiglia”: troppi suoi membri hanno avuto la non onorevole abitudine di mischiarsi con celebrità dal facile quattrino, gente diventata famosa per avere accumulato miliardi di sterline ma anche per essere prede dei paparazzi. Ricchezza e volgarità, all’insegna della spregevole regola denaro, potere, sesso. I cortigiani di Buckingham Palace si difesero dalle accuse spiegando che se certi personaggi frequentava i reali, era perché contribuivano con un sacco di soldi al finanziamento degli enti di beneficenza di cui Elisabetta e Carlo erano patroni: i royals sono superiori oltre che ai partiti, anche alle differenti classi sociali. Il fine giustifica i mezzi.

Gli ultimi mesi di questo 2022 sono stati di sofferenza per Elisabetta, a febbraio il Covid (chissà che non sia all’origine della sua scomparsa…). Il Giubileo di Platino, seguito solo all’inizio. Il 10 maggio, a Westminster, l’assenza al Queen’s Speech, il discorso della regina che illustra il programma di governo. Al suo posto, sopra un cuscino di raso, la corona. A fianco, nella veste di Reggente, Carlo, che legge il documento. Solo per due volte Elisabetta aveva disertato l’appuntamento, perché incinta di Andrea, duca di York, (nato il 19 febbraio del 1960) e di Edoardo, conte di Wessex (nato il 10 marzo 1964). Ma allora a leggere fu il Lord Cancelliere, come si usava al tempo di Vittoria che non amava le uscite pubbliche. Accanto a Carlo si nota una Camilla in ghingheri e poi, più in là, William, duca di Cambridge. Col senno di poi era già tutto scritto. Carlo, ossia la continuità dinastica (e Camilla, la futura regina consorte). William, che rappresenta il futuro della casata Windsor.

Protetta dalla “Bolla di Sua Maestà” Elisabetta consuma il suo tempo finale protetta da un cordone sanitario. Ma non smette di lavorare. Ogni giorno le viene recapitata la valigetta rossa che contiene i documenti, le carte, i telegrammi del Foreign Office, ciò che le arriva dai ministeri del governo e dal Commonwealth, da leggere, approvare ed eventualmente firmare. In media tre ore di impegno quotidiano. Si sentiva ancora pienamente “in servizio” e non accettava il concetto della pensione, figuriamoci quella dell’abdicazione, come fece Edoardo VIII nel 1936, scelta che fece vacillare pericolosamente la dinastia e che fu condannata dalla famiglia di Elisabetta. Aveva persino rifiutato il premio all’Anziano dell’anno, “sua Maestà crede che si sia vecchi quando ci si sente di esserlo”, spiegò il segretario privato Tom Lang-Baker, “e lei non si sentiva affatto vecchia”. Solo acciaccata dai malanni dell’età: “Quando arrivi a quell’età – ha detto Carlo – nulla è semplice come lo era prima”. Quasi un epitaffio.

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