Elsa Morante: “Seria è la vita, gaia è l’arte”.

(…) E so come sia difficile definire persone che quanto più si esprimono, quanto più si manifestano, più lasciano trasparire, di se stesse, non la loro evidenza, ma il loro segreto. Persone dal facile approdo, ma di conquista impossibile. Simili a universi, si lasciano percorrere, esplorare da cima a fondo, ma non si lasciano conoscere. Simili a continenti, ci ricordano continuamente che non ci sia continente che non sia un’isola (…) Sono vive le persone della categoria a cui appartiene Elsa Morante. E nella loro vita si portano addosso una croce speciale: quella di sentire di far parte non di un oggi, non di un domani, ma di un sempre.

Non saprei che altro aggiungere al ritratto che Cesare Garboli dedica alla scrittrice nella sua raccolta di saggi sulla Morante, (Il gioco segreto, Adelphi 1987. Il titolo riprende quello del primo libro di racconti pubblicato dalla scrittrice, nel 1941 per Garzanti). E invece ci provo, perché esiste in me la mia Elsa Morante, solo mia, e dunque lascerò che affiori dalle mie parole.

Elsa Morante muore in una clinica romana il 25 novembre del 1985 all’età di 73 anni; era nata il 18 agosto del 1912. Cadono dunque oggi i 110 anni della sua nascita; in questi giorni sono, come tutti, stretta nella morsa del caldo e guardo con desolazione la siccità prostrare la mia terra. Provvedere a tutte le piante è una battaglia persa. Devo scegliere a chi dare acqua e chi trascurare. Devo trovare la fermezza necessaria a questa scelta: devo attenermi a un piano. E, come nei miti più feroci, decidere chi sacrificare. Cosa ha questo in comune con la mia passione per Elsa Morante? Non l’ho ancora scoperto, ma andando avanti a scrivere forse si farà chiarezza. D’altronde si scrive spesso per capire, per lasciare che una costellazione affiori dalla ricchezza, apparentemente caotica, del firmamento.

Agosto 1987: trentacinque anni fa pubblicai con lo pseudonimo di Margherita Sanjust sulla rivista Paragone un articolo intitolato Dall’Isola alla Storia. Era estate anche allora, e la mia giovinezza mi faceva già vivere questa stagione con un presagio di morte. Passai luglio nella casa al mare di famiglia; allora ero piena di complessi. Non mi tolsi mai il copricostume (un po’ come lo pseudonimo Sanjust, il copricostume mi proteggeva dagli altri) passavo la giornata all’ombra, a leggere, a fumare e a spiare le altre ragazze spigliate e libere che affollavano la spiaggia. Tra le mie letture disordinate, irrequiete, confuse c’era un libro appena pubblicato da Adelphi, Pro e contro la bomba atomica, una raccolta di articoli e scritti che Elsa Morante aveva composto tra il 1950 e il 1965 (più un articolo su Beato Angelico del 1970).

Amavo questa scrittrice in maniera totale, stupita e appassionata. Menzogna e Sortilegio (uscito nel 1948 per Einaudi), e L’isola di Arturo (pubblicato nel 1957 ma iniziato a scrivere nel 1953), li avevo divorati l’anno precedente senza indagare le ragioni di quell’amore illimitato, indiscutibile. Mi ero abbandonata a loro con la stessa ingordigia con cui sentivo che Elsa Morante si buttava nella scrittura, nel suo gioco prediletto. Avevo anche letto La Storia, il romanzo da seicentomila copie che Morante aveva scritto nel 1974, ma i primi due romanzi rimanevano per me inarrivabili.

Leggendo gli articoli raccolti in Pro e contro la bomba atomica qualcosa di vivo si accese nella mia spenta estate. Lessi e rilessi la prefazione di Garboli al libretto che mi aveva regalato: con un filo resistente, le parole del critico infilavano le perle sparse di quegli articoli, dando loro lo splendore di una collana, di un insieme coerente che gettava luce nella trasformazione della misteriosa grazia morantiana degli anni Cinquanta nella dolente, scontrosa e affilata denuncia del male del mondo. Per la prima volta, su quella spiaggia affollata, mi venne voglia di scrivere su un autore.

Fino allora avevo scritto racconti, usando sempre lo stesso pseudonimo, e mi ritenevo del tutto inadeguata a scrivere di altri; men che meno di una scrittrice così immensa e adorata. Invece me ne andai dalla spiaggia e scrissi quell’articolo che, inviato a Paragone, fu ritenuto degno di pubblicazione. In Pro e contro la bomba atomica, tra i brevi saggi e gli articoli, si consumava, condensata in forme succinte, la svolta dolorosa nella vita di Morante che si evidenziava estesamente nei romanzi, e più nettamente nel passaggio dall’Isola di Arturo alla Storia. Nella raccolta si passava dal tono divertito e pieno di luce dell’articolo, per citare il mio prediletto, scritto nel 1962, Navona mia, (che ricordava lo stile, il tono e il miracolo dei primi due romanzi), allo sdegno e all’odio per tutto ciò che di moderno e di deforme Morante avvertiva intorno a sé, evidente nella conferenza Pro e contro la bomba atomica che dà il titolo al volume. I temi civili e politici che qui affrontava si ritrovavano estesamente nella Storia.

Menzogna e sortilegio, (del 1948), e l’Isola di Arturo (del 1957) sono due romanzi che non lasciano intravedere modelli, scrive Garboli. E io aggiungerei che non conoscono neanche epigoni.

Il ragazzino Arturo, orfano di madre, sembra partorito dall’isola: in quell’universo circoscritto vive affratellato alle meraviglie del mare e delle rocce, ignaro dei dolori degli isolani che rendono quel luogo ancor più solitario. Suo padre è l’oggetto indiscusso del suo amore, è l’eroe del suo immaginario vivace e avventuroso, ma, come l’isola, il padre, Wilhelm, ignora speranze e desideri del figlio; egli è tutt’uno con suoi vagabondaggi misteriosi nel mondo al di là del mare, rari e crudeli sono i suoi ritorni a casa. Come l’isola, il padre sospinge Arturo verso una solitudine subita come naturale, fiera e splendente quanto più silenziosamente accolta.

Diverso è per Elisa di Menzogna e sortilegio, voce narrante che ripercorre tre generazioni: i primi quattro capitoli raccontati ad Elisa da una sorta di coro di voci defunte mentre le ultime due parti scaturiscono fresche dalla memoria di lei adulta. Ricordo di quella lettura soprattutto il grande e maniacale amore della sdegnosa, fiera e malmaritata Anna per il cugino ricco e nobile Edoardo: vicenda che porta le tracce del romanzo ottocentesco, ma quando il lettore già quasi se ne dimentica perché la narrazione ha preso altre strade incantate, ecco lo stratagemma guizzante delle lettere inventate che Anna leggerà alla madre addolorata di Edoardo, lettere scritte da lei stessa e finta testimonianza di un amore che non è mai esistito.

Rivedo le scene in cui, mentre leggevo, ambientavo i due romanzi; rivedo con esattezza l’isola e il Sud che fanno da palcoscenico a questi racconti che, proprio in virtù del loro essere senza tempo, raccontano della vita; romanzi seri e incantati per sempre.

Per questo ho scelto per il post su Elsa Morante la frase: “Seria è la vita, gaia è l’arte”. Sono le parole che lo psicoanalista Ernest Bernhard, morto nel 1965, riporta nel suo unico, straordinario libro, Mitobiografia, uscito postumo nel 1969. Non perché i libri di Elsa Morante di cui ho parlato siano gai: tutt’altro. Una nota dolente fa da sfondo ai romanzi, ma gaia è l’attitudine, l’ingordigia con cui Morante scrive, la gioia dell’abbandono all’immaginazione a cui si affianca una continua cura al linguaggio e la consapevolezza di quanto la vita sia seria e, spesso, dolorosa.

Forse il fatto di lasciare morire certe piante e privilegiarne delle altre assomiglia alla scelta che ho fatto in questo post: non dare esauriente conto di tutta l’opera di Elsa Morante, ma concentrare la mia attenzione in ciò che di lei ho più amato e ritenuto talmente prezioso da far sopravvivere in me per trent’anni. Gli estimatori della produzione morantiana da me trascurata (ma non per questo meno amata), dalle poesie di Alibi, al Mondo salvato dai ragazzini, ai racconti dello Scialle andaluso, alla Storia e ad Aracoeli sapranno perdonarmi. Lo spazio a mia disposizione, come l’acqua di quest’estate, non era sufficiente ad abbracciarli tutti.

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