Appena finii di leggere la raccolta di poesie Datura, uscito da Einaudi nel 2013, ne scrissi su questo blog e non posso dunque, per ricordare Patrizia Cavalli, riprendere quel volumetto che allora mi commosse. Però per portare a termine il mio piccolo gioco di oggi, da quello scrigno estrarrò alcune gioie a cui aggiungerò poesie selezionate da altre raccolte.

Il mio portafoglio è un contenitore amato e familiare, fonte di consultazione giornaliera e compulsiva; mi capita spesso di aver paura di perderlo e la sua vista nella borsa mi è di consolazione. A volte è gonfio altre volte smunto, custode delle cose importanti, soldi, documenti d’identità, licenza di guida, carta di credito, carta sanitaria… ricordi antichi come quel centesimo ramato trovato un giorno sul marciapiede. Portafortuna, come la piumetta di ghiandaia che conservo in uno scomparto. La poesia di Patrizia Cavalli (morta a 75 anni, e la morte di ‘una Poeta’, così voleva esser chiamata lei, è tragedia per tutti, anche per chi non la conosceva), è il mio portafogli interiore: racchiude tra i suoi versi tutto ciò che di essenziale deve accompagnarmi nella giornata. E sono dunque d’accordo con lei, quando scrive, in Con passi giapponesi, la sua raccolta di prose uscita nel 2019: “A quali sogni ci costringono gli oggetti. Quali fantasticherie di perfezione la loro stolida imperfezione ci risuscita!”.

I versi di Patrizia Cavalli sono oggetti capaci di risvegliare meraviglia per la loro perfetta imperfezione e la loro quotidiana capacità di resuscitarmi. Sceglierò alcuni suoi versi e a ognuno darò il nome di un componente del mio portafoglio: consunto sì, ma familiare e dolce. La mia carta d’identità è la poesia di Datura:

Questa notte perfetta, questa ora così dolce,
il silenzio, e nessuno che disturbi
in questa casa esposta solo al mare e al cielo
nella temperatura giusta della carne,
io senza carne qui di fronte a te
mentre mi annoio e mentre tu ti annoi e credi
che rompere il silenzio rompa la noia
che invece ogni parola accresce. E adesso?
Annoiarsi da soli è forse un lusso,
ma annoiarsi in due è disperazione
non è noia che placida risieda,
ma attivamente lavora nel mio sangue
e mi fa scarsa e debole, mi estingue.

La mia tessera sanitaria, che mi permette medicine a buon prezzo e visite mediche abbordabili, mi conforta nelle mie intemperanze, è nel volume Einaudi Poesie (1974-1992) del 1992.

…Così una sera magari a una festa
mi manca il fiato non respiro soffoco,
questa città che puzza mi è funesta,
dipende invece penso dalle facce,
da quelle facce di trista cartapesta,
mi offendono le strade e anche gli amici
e le coppiette dritte ripugnanti,
e quindi me ne vado, basta, addio,
per poi scoprire che ero solo oppressa
dalla cintura elastica Gibaud (…).

La pasticca di antidepressivo che tengo tra gli spiccioli è la canzone che ha scritto e cantato con Diana e Chiara: Al cuore fa bene far le scale; guardare quel video fa passare il malumore. Si diverte Patrizia Cavalli, ride con quel caschetto biondo e l’ immancabile sigaretta…

Il mio portafortuna è una delle poesie di L’Io singolare proprio mio:

Una signora tutta ingombra di se stessa,
Dio, liberami da questa.
E dalle veglie funebri
ai corpi barricati di progetti
e dai confini spinati
dei quartieri morali. Perdo il respiro,
Dio, fatti valere, distruggi i giardinetti
curati e fiorentissimi. Vieni, foresta!

I miei soldi sono i versi del poemetto Patria che l’editore nottetempo ha pubblicato in una deliziosa e piccola collana di libri brevissimi, I sassi.

Capita a volte
se hai un mezzo pomeriggio in una delle tante
belle città italiane di provincia.
Vai dove devi andare, non hai voglia
di fare la turista, e anzi scegli
stradine laterali, senza gente;
camminando ti imbatti in uno slargo
con una chiesa, di quelle un po’ neglette,
spesso chiuse; sei già in ritardo, ma guardi
ala facciata che sonnecchia, e subito
i tuoi passi si allentano, si disfano,
si fanno trasognati finché non resti
immobile a chiederti cos’è
quel denso concentrato di esistenza
sorpresa dentro un tempo che ti assorbe
in una proporzione originaria.
Più che bellezza: è un’appartenenza
elementare, semplice, già data.
Ah, non toccate niente, non sciupate!
C’è la mia patria in quelle pietre, addormentata.

E il mio ricordo, la monetina ramata, è in questi versi:

La pioggia mi riporta
i pezzi dispersi
degli amici, spinge in basso i voli
troppo alti, dà lentezza alle fughe e chiude
al di qua delle finestre finalmente
il tempo.

La carta di credito, che mi dà quell’illusoria sensazione di ricchezza:

Ora si muove come fosse amore
un’ambizione di cellule in trasporto
verso una qualche improbabile stazione
carne esiliata che cerca la sua patria.
Ora si passa dall’ira alla pietà –
ciò che era morto nel cuore e nel giudizio
riaverlo vivo con più vivida realtà;
disprezzo fermo e chiusa antipatia
eccoli in pochi istanti trasformati
in una intraprendente nostalgia.
Ma nostalgia di che?
Soltanto nostalgia che gira e si rigira
dentro il suo molto affaccendato niente.

Infine questi versi potrebbero essere la mia patente di guida:

Quel che è detto è detto.
Ma sarà poi vero? Io non ho accesso
al vero, il mio pensiero ha un andamento
incerto, è sottoposto al vento
di scirocco (…)
a me non è concesso che attraversare i ponti
e al rosso del semaforo guardare con invidia
qualche ossesso che tra bestemmie e insulti
a passo lento infrange l’armata compatta
delle macchine. E basta, non c’è che questo.

E così potrei andare avanti, sparpagliare sul tavolo le poesie e il contenuto tutto del portafogli. Ne scelgo un’ultima per congedarmi da Patrizia Cavalli, che di un congedo racconta.

Che la morte mi avvenga dentro un desiderio
oltrepassando un uscio, ché altrimenti
non potrei sopportare che piano piano
mi si svanisca dagli occhi
o dalla memoria il lenzuolo celeste,
la coperta bianca, la luce bellissima
che schiariva la stanza (…)

Che la morte, Patrizia Cavalli, ti abbia colto dentro un desiderio, con negli occhi e nella memoria una coperta bianca e una luce bellissima. Per me rimani involucro prezioso, protezione di ciò che mi dà un senso.

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