Con il rinvio a settembre deciso giovedì sfuma quella che – complice la campagna elettorale – era probabilmente l’ultima chance per approvare in Senato la delega fiscale. C’era voluto quasi un anno per metterla a punto nella sua forma definitiva superando i veti del centrodestra su catasto e tassazione delle rendite. Il risultato è un compromesso debole e pasticciato che non si farà rimpiangere, se non per il fatto non secondario che conteneva alcune previsioni importanti per centrare l’obiettivo della riduzione dell’evasione fiscale inserito nel Recovery plan. Che cosa resta, in attesa di scoprire chi deciderà la direzione da dare al fisco italiano nei prossimi anni? Solo il discusso “antipasto” di riforma inserito nella legge di Bilancio per il 2022: il taglio delle aliquote Irpef da cinque a quattro e l’azzeramento dell’Irap per le persone fisiche.
Le scelte fatte a fine 2021 presentano il conto ora che l’inflazione galoppa, le bollette sono destinate ad aumentare ancora a doppia cifra e il governo Draghi in carica per gli affari i correnti deve cercare di tamponare l’emergenza con risorse che si rivelano insufficienti (“i mezzi sono quelli che sono“, ha ammesso il premier dopo il varo del decreto Aiuti bis). La rimodulazione di aliquote e detrazioni inserita in manovra, a cui sono stati destinati 7 miliardi, ha razionalizzato le aliquote marginali effettive scombinate dai bonus al prezzo di avvantaggiare in termini assoluti soprattutto i redditi medio-alti. Risultato inevitabile visto che, appunto, invece di concentrare gli aiuti sulle fasce che più faticano ad arrivare a fine mese, si è scelto di spalmarli su tutti i contribuenti. A regime, come calcolato dai Consulenti del lavoro, il beneficio si ferma a 90 euro all’anno per chi ne guadagna 11mila lordi e 200 euro l’anno a 22mila euro lordi, mentre i risparmi salgono a 945 euro l’anno per chi ha un lordo di 44mila e 738 euro l’anno a quota 50mila. Redditi che non sono affatto “medi”, visto che in Italia lo stipendio medio di un lavoratore dipendente è poco sopra i 21mila euro e per gli under 35 precipita a meno di 17mila.
Fin qui l’eredità del governo di unità nazionale. La delega ferma in Senato delinea invece la cornice della riforma complessiva del fisco così come è uscita da mesi di snervanti tira e molla. Sulla carta potrebbe essere approvata prima del voto, come auspicato da Draghi che si è impegnato comunque a lasciare al prossimo esecutivo la stesura dei decreti attuativi. Ma il centrodestra, che ha festeggiato lo slittamento a settembre, potrebbe ovviamente rimettersi di traverso e in caso di vittoria alle urne decidere di fare tabula rasa per procedere invece nel senso del promesso allargamento della flat tax. Regime che in base alla delega avrebbe dovuto essere mantenuto invariato (aliquota del 15% per i titolari di partita Iva con redditi fino a 65mila euro) prevedendo uno “scivolo” biennale per i contribuenti che superino il tetto massimo di ricavi.
Per il resto il governo ha ceduto alle richieste delle destre rinunciando a quella che era l’ambizione di fondo: cambiare volto al sistema di imposizione italiano adottando un modello davvero duale, in cui i proventi da lavoro sono tassati in maniera progressiva mentre a quelli che derivano dalla messa a frutto del capitale si applica un’aliquota proporzionale. L’articolo 2 sulla revisione del sistema di imposizione personale sui redditi fa salve le attuali cedolari come quella al 21% sugli introiti da locazioni o l’aliquota agevolata al 12,5% sui proventi da titoli di Stato e buoni postali, con il risultato che molte rendite continueranno ad esser tassate meno degli stipendi. Il risultato è “cristallizzare tutte le ingiustizie“, ha sintetizzato la sottosegretaria al Mef Maria Cecilia Guerra. di Leu, che non ha votato quella parte. Su questo “la debacle è stata totale e anche poco dignitosa“, come ha commentato l’ex ministro Vincenzo Visco, oggi presidente del centro studi Nens. “Si mantiene la differenziazione delle aliquote che si applicano alle diverse forme di reddito da capitale e immobiliare, si scrive addirittura che il sistema futuro dovrà basarsi su un approccio cedolare, prospettando così il ritorno alla situazione precedente alla stessa riforma del 1973, si mantiene e anzi si rafforza il regime forfettario per i lavoratori autonomi e le piccole imprese, il che significa”, ha esemplificato Visco, “che a parità di reddito, per esempio 35.000 euro, un lavoratore indipendente continuerà a pagare 2.500 euro in meno di un dipendente e 3.400 in meno di un pensionato”.
Per quanto riguarda la tanto discussa riforma del catasto, rispetto alla versione iniziale viene cancellato il richiamo al “valore patrimoniale” delle case ma resta l’indicazione che – accanto alla rendita catastale cui è legata la tassazione – dovrà essere attribuita anche un’ulteriore rendita calcolata in base ai criteri del Dpr 138 del 1998. E quel decreto consente revisioni delle tariffe d’estimo con riferimento “ai valori e ai redditi medi espressi dal mercato immobiliare”. La vittoria del centrodestra su questo fronte è stata dunque solo di facciata, ma resta il fatto che il governo si è impegnato ad escludere che le nuove informazioni siano utilizzate per determinare la base imponibile dell’Imu, nonostante il sistema attuale – come rilevato anche dall’Ufficio di bilancio – favorisca i segmenti di popolazione più ricchi avvantaggiando i proprietari di seconde case nel centro delle grandi città e nelle zone turistiche, che pagano meno tasse rispetto a quanto sarebbe equo.
L’unica occasione persa, a ben vedere, è la previsione inserita all’articolo 1 che inserisce tra i princìpi direttivi indicati al governo la riduzione di evasione ed elusione anche attraverso la piena utilizzazione dei dati contenuti nell’anagrafe tributaria, il potenziamento dell’analisi del rischio, il ricorso alle tecnologie digitali e alle soluzioni di intelligenza artificiale. Il via libera arrivato dal Garante Privacy a fine giugno consente già all’Agenzia delle Entrate di muoversi in quella direzione, ma le prossime mosse sono appese all’indirizzo politico del futuro governo. Che dovrà anche mandare in porto l’indispensabile riforma della riscossione lasciata incompiuta da Draghi. La leader di Fdi Giorgia Meloni, in testa nei sondaggi, ha chiarito in più occasioni che dal suo punto di vista i controlli incrociati del fisco sono “vessazioni contro i cittadini” e sulle cartelle la parola d’ordine è pace fiscale, nonostante i precedenti dimostrino che l’erario ci perde miliardi di euro.