La visita di Joe Biden attualmente in corso in Medio Oriente (13-16 luglio) ha come obiettivo prioritario quello di riallacciare buone relazioni con l’Arabia Saudita e i Paesi del Golfo, che si son sentiti trascurati da Washington su alcuni dossier fondamentali per la loro sicurezza strategica – in primis, la guerra in Yemen e la ripresa dei negoziati sul nucleare iraniano – con la richiesta principale da parte americana di aumentare la produzione di greggio e, tangenzialmente, di avanzare nella normalizzazione dei rapporti con Israele, attraverso iniziative pragmatiche (come la sua integrazione nel comando regionale Centcom, definita una Nato mediorientale), che prescindano da un’adesione formale di Riyad agli Accordi di Abramo, pur incassando il sostegno alla loro impalcatura generale.

L’evento focale del viaggio del presidente Usa sarà la riunione del Consiglio di Cooperazione del Golfo a Jeddah (15-16 luglio) e vedrà la partecipazione dei maggiori Paesi sunniti: Egitto, Iraq e Giordania. Data le premesse, la visita di Biden non è destinata ad attribuire alcuna centralità alla questione israelo-palestinese, né a indicare un cambio di passo nella politica Usa fortemente sbilanciata a favore di Israele, comprovata anche dall’agenda del presidente, costellata di molteplici incontri con autorità israeliane – il primo ministro Yair Lapid, il presidente Isaac Herzog e il leader dell’opposizione Benjamin Netanyahu – a fronte di un unico tributo formale al Presidente Abbas in un colloquio lampo a Betlemme.

Le aspettative da parte palestinese sono basse: Biden ha già inviato all’Autorità Nazionale Palestinese importanti segnali di distensione destinati a ripristinare le condizioni dello status quo ante le decisioni arbitrarie del suo predecessore Donald Trump, tra cui l’invio di 235 milioni di dollari di aiuti, l’intenzione di riaprire il consolato a Gerusalemme est e il quartiere generale dell’Olp a Washington, ma anche una donazione speciale per gli ospedali (100 milioni di dollari) per finanziare in forma indiretta le istituzioni dell’Anp e l’eventualità di un’audizione al Congresso sulla morte della giornalista americano-palestinese Shirin Abu Akleh.

Biden però non è intenzionato a spingersi oltre al tributo retorico alla difesa della “formula a due Stati”. E’ infatti evidente che nel suo programma non compaia la possibilità di rilanciare negoziati tra le parti, ormai in stallo dal 2014, ma nemmeno l’intenzione di incrinare la special relationship con Gerusalemme denunciando l’incessante costruzione di insediamenti – come quella in corso a Masafer Yatta, a sud di Hebron, che comporta l’espropriazione di una vasta area per la creazione di una base militare con conseguente espulsione di altri mille palestinesi -, in un momento in cui gli interessi prioritari di entrambi si collocano ben oltre la Linea Verde.

Più sorprendenti sono l’impreparazione e la rassegnazione con cui una paralizzata Anp ha accolto la visita del Presidente, senza formulare né un obiettivo strategico né una rivendicazione capace di condizionare, anche parzialmente, l’agenda Usa o di attrarre la solidarietà internazionale. I Palestinesi assistono ad un costante declino delle loro istituzioni di autogoverno, che non si rinnovano elettoralmente dal 2006 (nuove elezioni sono state indette e poi posticipate a data da destinarsi nel 2021 per rivalità interne), in una sostanziale assenza di dialogo politico tra “nazionalisti laici” (al-Fatah e altri) e “islamisti” (Hamas e la Jihad islamica) di fronte all’imminente possibilità di una successione alla guida dell’Anp, data l’età dell’attuale Presidente Abu Mazen.

Al-Fatah punta sulla continuità – con l’affiancamento di Hussein al-Sheikh, segretario generale del Comitato esecutivo dell’Olp e direttore dell’Autorità generale palestinese per gli affari civili in Cisgiordania, responsabile delle attività di coordinamento con le autorità militari israeliane -, ma non è affatto chiaro come il mantenimento dell’attuale status quo di stallo multilaterale – tanto sul fronte diplomatico, economico e politico – possa resistere alla guerra di successione in seno all’Olp né venire recepita da una popolazione palestinese disillusa (il 48% sostiene lo smantellamento dell’Anp, sondaggio Pcpsr, ottobre 2021) e impoverita, dato il calo netto degli aiuti esteri soprattutto da Usa e Ue (passati dagli 1.25 miliardi di dollari del 2013 ai 188 milioni del 2021), a cui si somma il congelamento di 600 milioni di dollari di tasse destinate ai prigionieri palestinesi trattenuti da Israele con una legge dal 2018.

Gli unici fermenti a cui si assiste si registrano, infatti, nel campo dell’opposizione, con un riallineamento progressivo tra forze laiche e islamiste afferenti a gruppi diversi – si veda l’incontro dei vertici del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina (Fplp), della Jihad islamica e Hamas a febbraio 2022 – in vista della costruzione di un programma comune in funzione anti-establishment e anti-normalizzazione regionale. Il “fronte della Resistenza”, incentivato anche dalla riconciliazione regionale tra Fratelli Musulmani e nazionalisti arabi (ovvero tra Turchia, Qatar, Egitto e Golfo), intende superare i conflitti aperti nel mondo arabo dopo le Primavere (2011), riallacciando rapporti con la Siria di Assad, rassicurando l’Egitto per garantire l’apertura del valico di Rafah e rafforzando le relazioni con quei Paesi arabi, come Kuwait e Algeria, saldamente contrari agli Accordi di Abramo.

Tuttavia nemmeno il Fronte indica quali opportunità di resistenza, a parte velleitarie operazioni militari, si aprano ai Palestinesi in un secolo in cui Gerusalemme è ormai parte integrante, e non più un corpo estraneo, al Medio Oriente, e in cui la Palestina rischia, attraverso la sistematica negazione della realtà, di rimanere esclusa da fondamentali scelte strategiche per il suo futuro, come la partita sulla ripartizione delle risorse di gas nel Mediterraneo orientale, ma anche la moltitudine di opportunità politiche ed economiche con i Paesi arabi spalancate dagli Accordi di Abramo.

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