di Adriano Tedde*

È successo anche qui. Mercoledì notte, mentre mi accingevo a spegnere la televisione, è apparso uno spot che annunciava la prossima messa in onda di Servant of the People. Il telefilm di Volodymyr Zelensky si aggiungerà allo sgangherato palinsesto della televisione pubblica australiana, fatto di programmi a basso costo, per lo più stranieri, un approfondimento politico settimanale e infinite repliche. Dopo un momento di incredulità, ho dovuto accettare il fatto che anche il paese che mi ospita da quattordici anni è ormai contagiato dal culto della personalità che si è creato intorno alla figura del presidente ucraino. Del resto, il 31 marzo Zelensky era apparso sugli schermi del Parlamento di Canberra, ricevendo la consueta standing ovation che ha messo insieme i partiti dei rivali Scott Morrison, il Primo Ministro conservatore, e Anthony Albanese, capo dell’opposizione laburista.

Il governo australiano ha finora sostenuto l’Ucraina con aiuti umanitari per 65 milioni di dollari australiani (circa 43 milioni di euro) e assistenza militare difensiva – difensive military assistance – per 91 milioni (60 milioni di euro). Senza farsi troppe domande, il pubblico australiano ha assimilato la narrazione semplificata di un conflitto complesso. Le raccolte di fondi a favore della popolazione martoriata dalla guerra si sono diffuse rapidamente, ma le ragioni di questa guerra lontana e complicata sfuggono ai più. E, tra le mille incognite generate dal conflitto, quello che non viene colto in particolare è il rischio potenziale di una pericolosa frattura e successiva divisione dell’Occidente.

A tale divisione, l’Australia dal canto suo ha già dato un importante contributo con la vicenda dell’Aukus dello scorso settembre, venendo meno ad impegni commercial-militari con la Francia, per andare dietro a un nuovo patto di sicurezza con Usa e Regno Unito.

Dunque, anche se pure l’Australia dovrà a un certo punto fare i conti con le nefaste conseguenze economiche e politiche che la guerra sta già creando, il conflitto visto da qui rimane ancora molto lontano. Gli australiani però non sono da biasimare, costretti ad affrontare una serie di problemi domestici e regionali ai quali la politica fatica a dare risposte. Sabato 21 maggio si eleggerà il nuovo parlamento federale. I candidati dibattono costantemente su sanità pubblica, asili e assistenza agli anziani, ossia le tre priorità del servizio pubblico che presentano maggiori criticità. Tra queste ci sono i limitati posti letto negli ospedali pubblici, il numero insufficiente di operatori sanitari e badanti e l’assenza di strutture pubbliche per i più piccoli (i bambini hanno accesso alla scuola materna pubblica al compimento dei quattro anni, per soli due o tre giorni alla settimana, di fatto costringendo le donne a rinunciare al lavoro).

L’insistenza del dibattito politico su questi temi è la conseguenza dell’esorbitante costo della vita, la cui crescita rapida non accenna a frenare. Un numero sempre più alto di australiani della classe media fatica ad arrivare a fine mese e deve rinunciare ai servizi privati che da sempre tappano i buchi del servizio pubblico con ospedali e assicurazioni sanitarie, asili e case per anziani.

Il segnale più preoccupante dell’aumento dei costi è dato dal settore immobiliare, da decenni preda ambita di grandi gruppi investitori stranieri. Il costo medio di una casa a Sydney è salito del 33% nell’ultimo anno, toccando l’allarmante cifra di 1,6 milioni di dollari. Di fronte a questi prezzi, non solo l’acquisto di una casa per una famiglia media con due stipendi sta diventando impossibile, ma si assiste sempre più a fenomeni sociali sinora qui sconosciuti come l’allungamento dell’età in cui si fanno figli e l’allontanamento dei più giovani dalle loro famiglie e città per vivere e lavorare in aree economicamente più accessibili del paese. La campagna elettorale è quindi dominata dallo scontro intergenerazionale tra gli australiani che hanno avuto la fortuna di crescere in un paese generoso, ritrovandosi oggi in possesso di immobili che valgono una fortuna, e i giovani australiani che gridano all’ingiustizia di doversi affacciare nel mondo dei grandi affrontando costi proibitivi con salari reali in costante declino.

L’altra esigenza che gli elettori indicano nei sondaggi è la prevenzione dei disastri naturali e i conseguenti aiuti alle vittime di sempre più frequenti incendi e inondazioni. L’estate che è terminata da poco ha visto la costa orientale affrontare inondazioni che hanno causato la morte di ventitré persone, distrutto ventimila case e lasciato danni per due miliardi di dollari. Il governo federale è stato criticato per l’inadeguatezza di una risposta improvvisata che ha riportato alla memoria l’imperdonabile inazione dello stesso governo di fronte agli incendi dell’estate del 2019/20.

Sul piano estero, l’elettorato aspetta risposte sulle relazioni con la Cina. Le politiche commerciali del paese nell’ultimo decennio hanno generato una forte dipendenza dal colosso asiatico, ma oggi il crescente attivismo militare di Pechino genera dubbi e timori per le scelte mercantili del recente passato. L’episodio di maggiore preoccupazione è stato l’accordo di sicurezza che la Cina ha concluso con le Isole Salomone. Da sempre l’Australia esercita sull’arcipelago la funzione di potenza regionale egemone, sotto forma di ingenti investimenti per la cooperazione allo sviluppo. La sigla dell’accordo, che ha preoccupato pure Washington che, assente da tra decenni nel paese, ha inviato funzionari nella capitale delle Salomone, Honiara, ha colto di sorpresa l’opinione pubblica. I politici di entrambe le parti faticano a spiegare come sia stato possibile, alzano i toni con il Premier delle Solomone, Manasseh Sogavare, accusato di fare il pappagallo di Pechino nel Pacifico, e affermano che non permetteranno mai lo stabilimento di basi militari cinesi sulle isole, senza spiegare però come intendano realisticamente mantenere questa promessa.

In questo ambito, il messaggio più terrificante, giunto in piena campagna elettorale, lo ha lanciato il ministro della Difesa, Peter Dutton, che nel giorno della festa delle forze armate Anzac (25 aprile) ha affermato che gli australiani devono prepararsi alla guerra se vogliono la pace.

Per mancanza di spazio, vorrei rinviare la presentazione delle politiche atte a trovare soluzioni a questi problemi una volta che sarà dichiarato il vincitore delle elezioni. Per ora mi limito a segnalare che, da un lato, i due principali partiti che da sempre si contendono il potere politico in un sistema elettorale maggioritario – il Partito Liberale e il Partito Laburista – offrono ricette diverse nei contenuti, ma entrambe moderate nei possibili risultati. Candidati di formazioni minori, come i verdi e i populisti del partito United Australia propongono piani opposti più radicali (i primi con maggiore spesa pubblica, i secondi con l’annullamento della stessa spesa). A questi si aggiunge oggi un numero sempre più elevato di candidati indipendenti, soprattutto nelle circoscrizioni metropolitane da sempre dominate da candidati liberali. Si tratta in gran parte di donne che presentano come priorità in agenda politiche climatiche ambiziose per un paese la cui economia è saldamente legata ai combustibili fossili.

Al di là delle piattaforme politiche, l’imminente elezione sembra che stia sempre più diventando un plebiscito su Scott Morrison, premier divisivo la cui popolarità sta crollando. Dopo nove anni al governo, la coalizione conservativa tra i partiti liberale e nazionale oggi teme una sconfitta, proprio a ragione delle crescenti critiche verso la persona del primo ministro. Morrison è criticato da tutti i suoi avversari per essere stato un mediocre comunicatore, scontroso con i giornalisti e, soprattutto, assente nel momento del bisogno (oltre ai citati incendi, Morrison non è stato capace di prendere una posizione netta di fronte ai tanti abusi sessuali perpetrati nel parlamento di Canberra e ha mal gestito l’arrivo della pandemia nel 2020 e la campagna vaccinale del 2021).

Ma i problemi giungono anche dall’interno del suo partito. Molti colleghi lo accusano di essere un bullo e tanti liberali stanno lasciando il partito per la scelta non dichiarata del leader di inseguire il voto delle frange più estreme del mondo conservatore in Australia. Al pari di Trump nel 2020, tante azioni e parole di Morrison sembrano indicare la sua intenzione di ottenere il consenso di elettori che negano i cambiamenti climatici, si oppongono alla parità di genere, di xenofobi, omofobi, e no-vax. Questo spiegherebbe in gran parte il fenomeno delle candidate indipendenti che sfidano i liberali a queste elezioni e che potrebbero diventare un importante ago della bilancia nel parlamento che uscirà dalle urne tra meno di due settimane.

Rimane solo da vedere l’attuale composizione dell’elettorato australiano e quale peso avranno i giovani delusi, i lavoratori immiseriti, e gli scontenti delle politiche anti pandemiche.

*ricercatore a Perth

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