“Molte scuole parentali realizzate in quest’ultimi due anni sono implose: non basta avere un bosco o una yurta per aprirne una; serve un progetto pedagogico”. A pensarla così sono persone come Emanuela Gelain, 39 anni, pedagogista, ideatrice di “Flow”, il primo centro per “l’apprendimento agile” in Italia e Emily Mignanelli, maestra, mamma, fondatrice nel 2009 della Scuola comunità dinamica di Osimo. Mignanelli e Gelain, con pochi altri, hanno iniziato a “costruire” scuole parentali in un’epoca in cui chi faceva questa scelta (concessa dalla Legge italiana) veniva considerato un eretico dai più.

Fino a tre anni fa nel nostro Paese gli alunni in “homeschooling” erano – secondo i dati del ministero dell’Istruzione – poco più di 6mila su oltre sette milioni di studenti. Ogni anno si registrava una crescita, seppur minima: nel 2017/2018 gli allievi che studiavano a casa erano 4.174; 5.126 nel 2018/2019. Con la pandemia è scoppiato il business della scuola parentale: nel 2019/2020 i ragazzi in scuola parentale erano 17.002, quasi undici mila bambini e ragazzi hanno abbandonato l’istruzione pubblica per quella fatta da mamma e papà o da insegnanti privati che educano al posto dei genitori. Un fenomeno che è imploso nel giro di pochi mesi visto che nel 2021/2022 sono diventati 13.180.

“Quello che è accaduto in questi ultimi due anni – spiega Gelain – è inquietante e grave. L’anno scorso ricevevo due chiamate al mese di persone che mi chiedevano come fare per aprire una scuola parentale. Gente senza alcun modello pedagogico, senza aver studiato nulla di psicologia o altro, ha aperto una scuola solo perché avevano un casolare. Hanno accolto tutti quelli che scappavano dalla statale solo perché erano No vax o No mask”.

Scuole nate solo per dare una risposta alle esigenze sanitarie e non pedagogiche. Dietro la storia di Flow c’è una ricerca, uno studio. La comunità educante di Vicenza, creata da Emanuela Gelain, si ispira alle Scuole democratiche, alla famosa “Summerhill School” fondata da Alexander Sutherland Neill nel 1921. Accoglie 35 bambini e sei ragazzi delle “medie”. Ogni anno, gli allievi che le famiglie affidano a Gelain, devono fare un esame alla pubblica per poter accedere alla classe successiva. A Flow non c’è un “programma”, non si segue il sussidiario ma hanno, comunque, come riferimento le Indicazioni ministeriali. Per esempio, per studiare la Prima Guerra Mondiale hanno fatto un approfondimento sulla propaganda. “In queste nuove scuole nate negli ultimi due anni c’è stata troppa improvvisazione. Spesso – racconta la fondatrice di Flow – penso che servirebbe una regolamentazione ma dall’altra parte son convinta che andremmo incontro ad una burocratizzazione assurda”. Gelain una proposta ce l’ha: “Anziché fare un esame agli alunni andrebbe fatto agli insegnanti delle scuole parentali”.

La stessa preoccupazione è condivisa da Emily Mignanelli che ha appena pubblicato per “Feltrinelli” il libro “Genitori a scadenza. Dall’attaccamento al distacco, amare è lasciar andare”: “Dopo il famoso decreto Lorenzin – sottolinea Mignanelli – che ha portato il numero di vaccinazioni obbligatorie nell’infanzia e nell’adolescenza da quattro a dieci, è iniziato un fuggi fuggi dalla scuola pubblica. Il problema è che molte realtà che hanno aperto sono implose: non basta avere un bosco o una yurta per aprire una scuola; serve un progetto pedagogico”. Mignanelli, che ha mandato suo figlio all’infanzia statale fino all’età di cinque anni e che ha fatto l’insegnante nella pubblica, è convinta che lo scorso anno a riempire le scuole parentali siano stati i genitori contrari alla mascherina. Un bisogno, non tanto dettato da una scelta di fondo sulla didattica ma dalla paura, dall’insofferenza per le regole imposte. A rispondere a questa necessità sono stati in tanti: “Aprire una scuola parentale è fin troppo facile. Pensa – spiega Mignanelli – che ci sono gruppi che si formano sui social per dare vita ad un’istruzione dell’ultimo momento”.

Ancor più convinta di questa ipotesi messa in campo da Mignanelli, è Cecilia Fazoli, pedagogista, consulente di scuola parentale. Dieci anni fa, a Faenza, con altri genitori ha dato vita a un’esperienza di quel tipo e oggi ha due figli, uno di dieci anni che fa homeschooling pura e un altro di 14 anni che dovrebbe essere al liceo ma è in una parentale. “Va detto, innanzitutto, che non sono solo i genitori a fare scuola. Mio figlio – dice Fazoli – vede anche un artigiano musicista; fa attività manuali; va in campagna; ha lezioni di matematica con una maestra che viene a casa nostra mentre io e mio marito ci occupiamo di arte, storia”. La pedagogista emiliana da quindici anni non vede la televisione e ai suoi figli non ha fatto fare non solo la vaccinazione contro il Covid, ma nemmeno le altre. Sul fenomeno scuole parentali ha le idee chiare: “Chi si è mosso in questi ultimi due anni lo ha fatto sulla scia della paura, non sulla base di una sensibilità educativa. Si è trattato di una fuga, ma in realtà non vogliono star fuori dalla scuola pubblica”.

A essere convinto, invece, che non si è trattato solo di un esodo in tempo di Covid è Sergio Leali, presidente dell’Associazione istruzione famigliare. Papà di due ragazzi (16 e 18 anni) in istruzione parentale da nove anni, architetto, ci tiene a dire che sua moglie Nunzia è un’insegnante di lingue straniere in un istituto di scuole medie superiori così la vice presidente dell’associazione Giulia Pecis Cavagna. Leali non ha dubbi: “In questi anni l’interesse per l’istruzione parentale è cresciuto, il sistema pubblico è al punto di non ritorno. La coincidenza del boom con lo scoppio della pandemia è evidente ma non si è trattato di una fuga ma di una ricerca di qualcosa che si pensa o pensava essere migliore”. Il presidente di “Istruzione famigliare” è convinto che di quei 13.180 di quest’anno molti resteranno perché hanno apprezzato questo modello educativo ma non nasconde un rischio: “Non bisogna scivolare nel business”.

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