Vitaly e Marina accendono il pc e attivano il collegamento online. Presto sullo schermo si moltiplicano le finestre dei contatti e da ognuna spuntano i volti stanchi ma curiosi di altrettanti bambini. Tra pochi minuti inizierà un incontro particolare, una diretta con il mondo delle favole e del fantastico dedicata proprio a loro. E stasera è la volta del Mago di Oz. “Da quando è iniziata la guerra, le persone che stanno soffrendo di più sono proprio i più piccoli e noi cerchiamo di dare il nostro contributo raccontando loro una favola. Non è molto, ma speriamo sia gradito”, spiegano Vitaly e Marina, sfollati da zone a rischio che insieme hanno deciso di creare questo appuntamento a distanza per i più piccoli, sfollati e non, ovunque siano. Lui, 34 anni compiuti la sera stessa del collegamento ‘a distanza’, è un militare con compiti di supporto. Lei ha 20 anni, è parte di una compagnia teatrale di Kiev e da quando è iniziata la guerra fa la spola con la Polonia per ottenere aiuti umanitari. I due, che non si conoscevano prima dell’inizio del conflitto, oggi si preparano a raccontare una favola, in collegamento da un convento alla periferia della capitale ucraina dove i domenicani ospitano chi fugge, ognuno con la sua storia.

“Stasera abbiamo scelto di leggere, di narrare piuttosto, quasi recitando, alcuni brani del Mago di Oz”, conferma Vitaly. Dall’altra parte dello schermo ci sono una quindicina di bambini, per lo più femmine, con le mamme accanto a loro. E quando inizia la rappresentazione vengono come rapiti dalla storia. “Sono tutte famiglie sfollate dalle zone di guerra, chi a Leopoli e chi in altre città più sicure, altre addirittura in Polonia se non in altri Paesi”, spiegano. Abbiamo avuto quest’idea e l’abbiamo messa in pratica e ogni giorno riceviamo nuove adesioni”, aggiunge Marina. I due giovani ‘attori’ li abbiamo incontrati all’interno del convento ‘Madre di Dio’ dei padri domenicani alla periferia di Kiev. La struttura seminariale ha smesso i panni originali della sua missione e offre accoglienza a tutti coloro che ne hanno bisogno, in questo periodo difficile per l’Ucraina e per la sua capitale. Il centro religioso ospita sette padri domenicani sotto la guida di padre Petro Balog, il priore del convento: “Giovani come Marina e Vitaly e tutti gli altri presenti in convento sono venuti qui da varie parti dell’Ucraina perché cercavano un rifugio più sicuro. Alcuni non sapevano dove stare e non volevano rimanere per giorni o settimane nei bunker. Questo è un posto di passaggio, la gente viene e va e noi accogliamo tutti per tutto il tempo necessario”, spiega. E ad andarsene sono stati anche alcuni religiosi: “Due padri sono andati via con l’inizio del conflitto: un francese tornato a Bologna, la sua sede originale, e un altro, padre Jakub, sta aiutando gli ucraini in Polonia”.

Padre Petro parla un italiano quasi perfetto visto il lungo periodo di studi teologici trascorso nel Belpaese. Da alcuni anno è a Kiev dove dirige anche l’Istituto teologico San Tommaso d’Aquino. Le sue giornate sono scandite dagli incontri seminariali, purtroppo non più in presenza ma anche questi attraverso il collegamento internet: “Dal 24 febbraio è cambiato tutto – spiega – e stiamo vedendo sulla nostra pelle il peso di questo dramma. Nel giro di un mese abbiamo accolto più di cinquanta persone e cerchiamo di portare avanti la nostra attività religiosa. Oltre all’ospitalità in convento, noi domenicani cerchiamo di aiutare anche le persone all’esterno, come volontari, e in oltre gestiamo la casa ‘San Martino Porres’ per bambini disabili e malati a Fastiv, città a 80 chilometri a sud di Kiev. Parte del nostro plesso, poi, è occupato da una scuola; quell’area, sempre prima della guerra, l’avevamo data in uso a un’organizzazione tedesca che aveva avviato un asilo e la collaborazione ci rendeva autonomi. Ora l’asilo è vuoto, ovviamente”. E Tutto è rimasto congelato e fermo al 24 febbraio scorso: gli armadietti personalizzati dei bambini, i giochi, addirittura i calzini usati per stare in classe.

Tra gli ospiti del convento di via Derevlianska c’è un’altra ragazza, anche lei con un presente particolare: “Sono originaria di Kherson, ma con la famiglia abbiamo vissuto quasi sempre a Kharkiv“, racconta. Si tratta di due delle città più colpite dal conflitto, la prima altamente strategica per gli interessi russi visto che si trova a metà strada tra la Crimea e Odessa, e la seconda, a est, situata a pochi chilometri dal confine russo. “Da alcuni anni mi sono trasferita a Kiev per lavoro. Adesso la guerra ha cambiato tutto e sono finita qui nel convento dove mi hanno accolta. La mia famiglia? Mio padre sta combattendo, di mia madre non ho più notizie da alcune settimane. Dopo l’inizio del conflitto è scappata a ovest e dovrebbe trovarsi in un villaggio al confine con la Polonia, ma da allora non ci siamo più sentite”. Una, dieci, cento storie di passaggi e di incroci nel dramma ucraino del terzo millennio, complicato come tutte le crisi militari sanno essere: “Alcuni mesi fa ho iniziato a temere le mosse della Russia, ma credevo si trattasse soltanto di una dimostrazione di forza – è il commento finale di padre Balog. Che aggiunge: “Lo choc del primo bombardamento è stato enorme e i primi giorni drammatici, ora la paura sta passando. La Russia pensava di fare un sol boccone dell’Ucraina invece ha finito con l’unire tutta la popolazione. I comunisti sovietici erano cattivi, ma con loro c’era dialogo, con Putin no”.

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