Il successo dei vaccini, che misuriamo nel confronto con i dati relativi a ricoveri e decessi rispetto a quando i composti anti Covid non erano ancora pronti, è un dato di cronaca che però ha nella letteratura scientifica la sua spiegazione. L’indagine condotta su 10mila dipendenti di Città della Salute e Università di Torino per valutare la risposta immunitaria alla vaccinazione anti-Covid ha per esempio fatto emergere che nel 99,8% dei soggetti sottoposti a immunizzazione sono presenti livelli di anticorpi. Condotta nel maggio scorso attraverso la positività al test sierologico a Sars Cov 2, rivela anche la persistenza di una risposta cellulare complessiva superiore al 70% a distanza di 8 mesi dalla vaccinazione.

Lo studio condotto rileva anche che la diversa risposta individuale al vaccino anti-Covid può essere messa in relazione alla variabilità genetica individuale. Ogni individuo presenta una variabilità in circa l’1% delle lettere del Dna, che lo rendono unico e differente dagli altri. Secondo la ricerca, questa variabilità genetica spiega anche come la nostra risposta immunitaria abbia un’efficacia diversa. Di tutte le caratteristiche genetiche scritte nel genoma, e sono circa 23.000, i ricercatori si sono concentrati in particolare su un gruppo di geni – HLA, Human Leucocyte Antigens – che consentono di costruire alcune molecole espresse sulle nostre cellule, comprese quelle del nostro sistema immunitario.

Queste ultime hanno il compito di proteggerci dagli intrusi, attivando la risposta degli anticorpi contro i bersagli estranei come virus, batteri e vaccini. Quale sia il bersaglio, lo definiscono proprio le molecole HLA, e quindi la variabilità di queste molecole ci aiutano a capire la diversità che osserviamo nella popolazione in relazione alla quota di anticorpi prodotti contro il virus a seguito della vaccinazione. L’approfondimento ha mostrato come alcune varianti siano più frequenti in coloro che hanno dimostrato una più bassa produzione di anticorpi rispetto a coloro in grado di sviluppare una risposta anticorpale più consistente.

Presentato oggi online, alla presenza tra gli altri di Giovanni La Valle e Lorenzo Angelone, direttore generale e direttore sanitario della Città della Salute, lo studio, che nella sua prima fase ha confermato il maggior rischio per i dipendenti del comparto sanità di contrarre l’infezione rispetto al resto della popolazione, sembra dunque suggerire che la risposta immunitaria cellulare contro il coronavirus sia di lunga durata. Erano presenti anche i direttori del Dipartimento Qualità e Sicurezza delle Cure e del Dipartimento Medicina di Laboratorio, Antonio Scarmozzino e Paola Cassoni, e la professoressa Rossana Cavallo, direttore microbiologia virologia universitaria Città della Salute di Torino.

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