“Che cosa ci dobbiamo aspettare con la riapertura delle scuole? Cambierà la curva dei contagi? Ci sarà un’incidenza importante?” chiede lo scorso 8 gennaio il conduttore di In Onda su La7 David Parenzo al prof. Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri e ricercatore di chiara fama, che dal canto suo risponde: “Dove il problema è stato studiato, in Canada, negli Stati Uniti e in Giappone, non si è visto un aumento dei contagi dovuto alla scuola: i bambini si contagiano fuori della scuola. Quindi non c’è ragione di didattica a distanza, non c’è ragione per i dati che sono a disposizione di chiudere le scuole. Credo che il contributo della scuola sia davvero irrilevante all’aumento dei contagi di una variante che si diffonde con una velocità straordinaria”.

Corre dunque l’obbligo di ricordare al prof. Remuzzi, come a quanti siano desiderosi di svolgere un corretto servizio informativo, che gli studi scientifici e i report tecnici a dimostrazione dell’incidenza scolastica nella diffusione del virus sono diversi; che gli stessi, oltre che in Europa, sono stati condotti anche in paesi da lui menzionati e che dunque non è esatto affermare che il contributo della scuola nella diffusione dell’infezione sia del tutto irrilevante, che i contagi avvengano solo al di fuori delle scuole e che, come per magia, le classi scolastiche siano misteriosamente a prova di trasmissione virale.

Gli studi, come dicevamo, ci sono eccome, pubblicati tanto negli ultimi tempi quanto in tempi assolutamente non sospetti. Partiamo da uno studio pubblicato su BMC Infectious Diseases nel 2009 e titolato “Stima dell’impatto della chiusura delle scuole sul comportamento di mescolanza sociale e sulla trasmissione di infezioni da stretto contatto in otto paesi europei”, un’indagine che testualmente recita: “Le stime risultanti indicano che la chiusura delle scuole può avere un impatto sostanziale sulla diffusione di una malattia infettiva emergente che viene trasmessa attraverso contatti stretti (non sessuali)”.

Ben due poi sono i recenti report tecnici rispettivamente condotti dallo European Centre for Disease Prevention and Control (ECDC) e dallo statunitense Centers for Disease Control and Prevention (CDC): il primo giunto al suo secondo aggiornamento nel mese di luglio 2021, intitolato “Il COVID-19 nei bambini e il ruolo degli ambienti scolastici nella trasmissione” e basato su più di 180 referenze; il secondo giunto al suo quarto aggiornamento nel mese di dicembre del 2021, dal titolo “Science Brief: trasmissione di SARS-CoV-2 nelle scuole primarie e secondarie e nei programmi di educazione e cura della prima infanzia” e basato su più di 100 referenze.

Se il primo dei due report conclude affermando “(…) le chiusure scolastiche possono contribuire a una riduzione della trasmissione di SARS-CoV-2, ma sono di per sé insufficienti a prevenire la trasmissione nella comunità di COVID-19 in assenza di altri interventi non farmaceutici e dell’ampliamento della copertura vaccinale”, il secondo più drasticamente chiosa con le seguenti parole: “La trasmissione di SARS-CoV-2 nella comunità è correlata alla quantità di infezioni nelle scuole. Quando i tassi di COVID-19 nella comunità sono elevati, aumenta la probabilità che SARS-CoV-2 venga introdotto e potenzialmente trasmesso all’interno di una scuola o di un ambiente ECE”. È quest’ultimo report infine a indicare una serie di strategie di prevenzione utili a limitare i contagi scolastici (distanziamento fisico, sistemi di ventilazione, tracciamento dei contagi, ecc.), quasi tutte però inapplicate o impossibili all’applicazione negli ambienti scolastici italiani.

A ulteriormente confermare la correlazione tra la trasmissione del virus nella comunità e l’apertura scolastica è anche lo studio “Come le scuole hanno influenzato la pandemia di COVID-19 in Italia: analisi dei dati per Regione Lombardia, Regione Campania e Regione Emilia”, pubblicato sulla rivista Future Internet ad aprile 2021: “Diversi sono gli elementi e diversi i fattori che ci suggeriscono di concludere che la scuola non è un ambiente sicuro per definizione”, concludono i ricercatori che hanno incrociato i dati delle tre regioni indicate nel titolo stesso dello studio, aggiungendo inoltre che “(…) tutte e tre le regioni analizzate hanno registrato un aumento del numero di casi a due settimane dalla riapertura delle scuole. Il time-lag rilevato per tutte le province analizzate è pari a 14 giorni, a conferma della nostra ipotesi che occorrano due cicli di incubazione per percepire l’impatto del contagio proveniente dalle scuole. Inoltre, le province che hanno avuto un numero elevato di casi in ambito scolastico sono quelle che successivamente hanno avuto un numero totale di casi maggiore e, come previsto, il contagio è aumentato nel tempo. L’esempio più significativo è Varese, che tra le province lombarde è quella che nel tempo ha avuto la più alta incidenza di diffusione delle scuole su tutto il territorio provinciale, portando così ad una delle province più colpite d’Italia durante la seconda ondata di COVID-19”.

In conclusione: possibile non si tengano minimamente in considerazione simili evidenze scientifiche in contesti mediatici e informativi di caratura nazionale? Ma più in generale: è troppo pretendere un fact-checking serio e puntuale almeno su temi di tale importanza?

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