Nella parte del mondo di cui si occupa questo mio blog, dal Marocco fino all’Iran passando per Egitto e Israele, migliaia di prigionieri che mai avrebbero dovuto entrare in un carcere vi termineranno il 2021. Le loro storie sono state raccontate in questi anni ma, nell’ultimo post di quello che sta finendo, voglio ricordarne alcune.

In Iran, lo scienziato Ahmadreza Djalali è ancora nel braccio della morte e rischia l’esecuzione. Il 14 gennaio compirà 50 anni. Gli ultimi quattro compleanni li ha trascorsi lontano da sua moglie e dai suoi due figli.

Di anni in prigione ne ha trascorsi ormai quasi dieci il blogger saudita Raif Badawi. È quasi giunto alla fine della condanna e si spera possa tornare libero il prossimo anno.

Chi non uscirà dalla prigione, se non interverranno con un provvedimento di grazia le autorità del suo paese, è Abdulhadi Al-Khawaja, il più importante difensore dei diritti umani del Bahrein, che sta scontando un ergastolo inflittogli per aver denunciato la repressione delle proteste del 2011.

Nelle prigioni del Medio Oriente e dell’Africa del Nord sono molti i giornalisti in carcere. Uno di loro è l’egiziano Ismael Alexandrani, “colpevole” di aver indagato sul conflitto che nella penisola del Sinai oppone gruppi armati islamisti e forze di sicurezza del Cairo. In Marocco c’è Omar Radi, la cui storia è diventata nota nel contesto dello “scandalo Pegasus”, il software prodotto dall’azienda israeliana NSO Group utilizzato per spiare dissidenti, attivisti e per l’appunto operatori dell’informazione.

Sempre spiato da Pegasus è stato l’attivista emiratino Ahmed Mansoor, che sta scontando una condanna a 10 anni solo per esserci occupato di diritti umani.

Chiudo questa amara rassegna della repressione con la storia di Entesar al-Hammadi, la modella dello Yemen che si è presa cinque anni di carcere per aver sfidato norme e costumi del gruppo armato huthi, che controlla parte di un paese ridotto a pezzi da sei anni e mezzo di guerra.

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