Ieri Ahmadreza Djalali, scienziato con doppio passaporto iraniano e svedese, ha trascorso il suo duemillesimo giorno dall’arresto in una prigione dell’Iran.

Djalali, un esperto in Medicina d’emergenza che ha lavorato presso università della Svezia, del Belgio e anche dell’Italia (in particolare all’Università del Piemonte orientale), è stato arrestato nell’aprile 2016, accusato di spionaggio e condannato a morte da un tribunale rivoluzionario di Teheran un anno e mezzo dopo.

Secondo l’accusa, Djalali ha avuto diversi incontri col Mossad, l’agenzia di intelligence israeliana, fornendo informazioni sensibili su siti militari e nucleari di Teheran e su due scienziati iraniani poi assassinati.

Djalali ha sempre respinto queste accuse, denunciando che sono state una rappresaglia per il suo rifiuto di collaborare coi servizi iraniani per identificare e raccogliere informazioni dagli stati dell’Unione europea: “Sono uno scienziato, non una spia”, ha scritto dal carcere nel 2017.

Djalali è detenuto nella prigione di Evin, in condizioni di salute sempre più precarie. Da quasi un anno gli è impedito di contattare telefonicamente la moglie e i figli, che vivono in Svezia. La sua esecuzione viene periodicamente annunciata e poi rimandata.

In favore della sua scarcerazione hanno preso posizione 121 premi Nobel e Amnesty International, il cui appello alle autorità iraniane ha superato le 220mila firme.

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