Nel giorno in cui ricorrono trent’anni dalla sua scomparsa, cosa possiamo dire di Freddie Mercury, oggi, se non ribadire una volta di più quanto ci manchi?

In un mondo, quello musicale, ancora diviso tra difensori e nemici del rock, giunto ad attingere da nuova linfa vitale per colpa o merito dei Maneskin, possiamo ben comprendere quanto una figura come quella del carismatico frontman dei Queen tornerebbe utile ai tempi nostri. Senza troppo curarsene, infatti, Freddie Mercury ha cavalcato l’onda, subendo le influenze che si alternavano via via a cavallo dei singoli decenni, finendo per domarle e (quasi) sempre da protagonista: dal rock progressivo degli esordi, passando per l’heavy metal (primordiale, intendiamoci), la disco, il synth-pop, l’opera, la musica classica (intesa, anche qui, in senso lato)… non c’è nota che in un modo o nell’altro non abbia cantato.

Il tutto con alterne fortune, dal momento che ha ragione anche chi (e non sono pochi) guarda alla ‘Regina’ con sospetto, mantenendo ovvero una certa distanza: riconoscendogli cioè la capacità di aver sfornato hit e classici, senza per questo, però, avvertire l’esigenza di riservarle una menzione speciale.

Ma la peculiarità di Freddie Mercury, oltre che nella sua stratosferica presenza scenica, risiedeva certo nel suo altrettanto grande talento compositivo ma, ancora più, nell’unicità della sua timbrica: pochi colleghi, pure importanti, suonano altrettanto riconoscibili, e ancora meno – non è un caso – sono quelli che abbiano mai provato a imitarlo.

Fondati i Queen unendosi agli Smile del cantante e bassista Tim Staffell (che, a voler esser cattivo, potremmo dire verrà ricordato per sempre per lo scarso fiuto artistico), ha formato assieme a Roger Taylor, Brian May e John Deacon una delle moltitudini compositive più riuscite e fortunate di tutti i tempi: non serve infatti essere un fan dei quattro per coglierne la grandezza e l’armonia d’insieme. Basta averli ascoltati mezza volta. Non è un caso non siano mai riusciti, singolarmente, a ricalcare neppure un poco il cammino svolto in collettivo: a cominciare proprio da Mercury, animato forse più dalla volontà di liberarsi dalle catene della vita in band che non da chissà quali ispirazioni.

In quel 24 novembre 1991, un giorno e mezzo dopo avere rivelato la propria malattia, risiede la fine non di un uomo ma di un’epoca: prima degli ultimi sussulti del rock così come lo si era conosciuto, prima che il grunge rimescolasse le carte e, subito dopo, prendessero piede il new metal o l’alternative, uno dei più grandi musicisti e intrattenitori vissuti su questo mondo salutava lasciando solo intendere di essere giunto al capolinea. Consapevole forse del miracolo tecnologico che avrebbe visto protagonisti i rimanenti membri dei Queen con l’ultimo Made In Heaven: composto da rielaborazioni delle sue (e altrui) già citate sortite da solista, e brani inediti che, seppure sapientemente rimaneggiati, fanno da eco a un vuoto ancora oggi incolmabile.

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