Realtà ben affermata, e non da oggi, i Biffy Clyro incarnano, in studio e dal vivo, la garanzia sulla quale i nuovi fan del rock sanno di poter contare senza rischiare di rimaner delusi. Quest’ultimo, The Myth Of The Happily Ever After – che giunge a poco più di un anno dal precedente A Celebration Of Endings – palesa come per molti artisti nel mondo la pandemia tuttora in corso abbia rappresentato e rappresenti, questo sì, un’opportunità unica per interrompere il circolo vizioso che segue la pubblicazione di altro materiale, ogni due anni, e di lì l’approdo ad un prossimo tour.

La loro formula, semplice e solida, è quella del power-trio: una tipologia di formazione, questa, che di soddisfazioni in musica non ha mai mancato di darne, specie guardando indietro di qualche decennio. I Biffy Clyro non sono i Rush (e che Dio mi fulmini anche solo per averli messi sulla stessa riga) ma, come era per loro, hanno la fame e la testardaggine di chi ha timore di non bastare a se stesso ed è quindi pronto, dovesse richiederlo la situazione, ad abbandonare la propria formula, standard, per una tastiera in più e una chitarra o un basso in meno.

E’ un disco, The Myth Of The Happily Ever After, che va colto nel suo insieme: tanto facilmente si lascia ascoltare che si potrebbe in un primo momento credere di essere in presenza di un prodotto ben confezionato e basta. Invece, no: se da una parte nei suoi 50 minuti è condensato tutto il mestiere di una band giunta alla terza prova in studio in tre anni (la nona in carriera), è altrettanto vero che pochi sanno scrivere inni alla maniera di Simon Neil e compagni.

Le loro canzoni sembrano pensate per essere cantate da intere folle di fan, ed è come se in ognuna di esse si riuscisse a scorgere volto e fattezze dei loro supporter, senza però che nemmeno uno dei brani qui presenti, e fin qui prodotti, suoni per questo plastico e artificioso. Che chi di dovere ce li preservi, i Biffy Clyro: con la speranza che frequentando ormai abitualmente le arene e i palazzetti (in Italia no), non diventino mai veramente un gruppo da stadio, mantenendo quella rozzezza che li ha resi sì mainstream, ma quel tanto che basta per non smettere di essere indipendenti. Auguriamoci non facciano la fine dei Foo Fighters, in soldoni.

Nello specifico delle canzoni, già la scelta di esordire con un primo estratto (Unknown Male 01) dalla durata tutt’altro che radiofonica, la dice lunga sulla rettitudine dei tre: A Hunger In Your Haunt, Denier, Separate Missions, Holy Water, Errors In The Hystory Of God e l’epica (a dispetto del titolo) Slurpy Slurpy Sleep Sleep, sono gli episodi migliori di un disco che non ha riempitivi ma che si compone, nella peggiore delle ipotesi, anche di brani meno riusciti. A giudicare però dal livello medio, guardando proprio a quello, non c’è comunque motivo in finale di indugiare: The Myth Of The Happily Ever After è una cavalcata continua verso orizzonti sconfinati, caratterizzata da sortite rock genuine che muovono, continuamente, alla ricerca della melodia ampliando progressivamente il range della proposta. Un viaggio dai toni a tratti crepuscolari e riflessivi, perfetto per l’ascolto alle basse temperature dove, presumibilmente, è stato partorito. Un’uscita tra le migliori di quest’anno: non la sola, sicuramente una delle più distinguibili.

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