Di Freddie Mercury, e dei Queen, si è scritto e detto tanto se non in alcuni casi troppo. La gloriosa epopea di una delle band di maggior successo di tutti i tempi è stata recentemente riscritta da un biopic di successo che ha rivisto, sempre al rialzo, le vicissitudini di un gruppo (e del suo leader indiscusso) che ha vissuto di alti e bassi, come tanti. Nella normale alternanza di ispirazione, che caratterizza ogni band al mondo, il valore aggiunto dato in questo caso dal suo cantante ha però pochi eguali: la timbrica, l’eccentricità, l’estensione vocale e l’istinto compositivo fungono ancora oggi da metro di paragone.

Nato Farrokh Bulsara, folgorato da principio dalla musica di Jimi Hendrix, Freddie Mercury ha sapientemente mescolato, più che cucinato, gli elementi caratterizzanti la proposta dei Queen: l’opera, il glam, l’hard rock, il pop e l’abbraccio via via più consistente a quei sintetizzatori in un primo momento orgogliosamente ripudiati. Nel mezzo, una carriera solista di breve durata, che doveva emanciparlo dal suo contesto di appartenenza salvo poi far sì che vi ritornasse quasi con la coda tra le gambe. Lo sanno bene Brian May e Roger Taylor, che dietro al monicker del gruppo del quale rimangono gli unici rappresentanti in terra, si sono nascosti e schermati provando anche un’improbabile nuova avventura, in studio e dal vivo, con Paul Rodgers.

Presente nella sua assenza: questo è stato e continua a essere Freddie Mercury, quando vengono rovesciate le ceste nelle quali dovrebbe trovarsi l’ennesimo inedito che tale non è mai, così come quando appare, in qualità di ologramma, sul palco con loro. Lo ha capito prima di tutti Adam Lambert, che ha subito deciso di muoversi esclusivamente all’interno dei confini di un palco: lasciando intatta la sacralità di un artista prematuramente scomparso nella forma, nel corpo, ma non nell’anima.

Fatto salva, ovvio, la grandezza della produzione dei Queen, ne va esaltata anche la semplicità: come è per un brano tipo “Crazy Little Thing Called Love”, che rappresenta il primo vero tentativo di Mercury alla chitarra, con gli unici accordi che era in grado di suonare. Prima e dopo, le tensioni avevano portato i quattro sul punto di sciogliersi, salvati dal buon The Works, prima, e dalla leggendaria esibizione al Live Aid l’anno dopo. Non è un caso che a partire dall’album The Miracle ogni canzone venga riportata a nome comune, senza che vi sia indicazione di chi veramente l’abbia scritta. Il successivo Innuendo, il canto del cigno, riprenderà invece il discorso interrotto anni e anni prima con A Night At The Opera, mentre il postumo Made In Heaven riproporrà, in maniera efficace, brani delle esperienze soliste di Mercury, May e Taylor, unitamente a veri e propri inediti in alcuni casi (“Mother Love”) nemmeno portati a termine del tutto.

Oggi, 5 settembre, Freddie Mercury avrebbe compiuto 75 anni, e al di là della malattia che lo portò a morire ormai 30 anni fa sarebbe comunque difficile immaginarlo alla maniera di come è che lo ricordiamo. Non si sarebbe visto a fare le cose di un tempo, quando poteva sceglierlo, sia fisicamente che musicalmente. Lo immagino più comparire, ogni tanto, e marcare per l’ennesima volta la differenza: insegnare agli altri il mestiere, indicando la via seguita dall’ultimo ex, John Deacon, ritiratosi a vita privata in tempi certo non sospetti.

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