di Giovanni Perazzoli

Questa volta i forconi dei benpensanti non erano a Sapri, ma ci sono arrivati da tutta Italia. Se fosse stato un esperimento sociale sarebbe riuscito in pieno. Quante volte è stato ripetuto che la libertà dell’artista e dell’arte sono sacre? Abbiamo difeso il diritto dei disegnatori francesi di disegnare Maometto indipendentemente dal giudizio sul contenuto e dall’opportunità politica. Chiunque si fosse azzardato a dire “eh ma avrebbero dovuto tener conto di, valutare che, c’è un contesto, c’è un decoro”, sarebbe stato invitato a prendere ripetizioni serali sulla libertà di opinione in una società liberale. Tutti avremmo detto che se “l’opportunità politica” diventa un criterio dentro il quale l’arte è tenuta a muoversi, allora l’arte è già un’arte di regime.

Tutti d’accordo, tutto chiaro. Proviamo però a fare un esperimento e a far credere che ci sia un nobile motivo, dunque apparentemente progressista, per dare addosso ad un’opera d’arte, non giudicandola, come si dovrebbe, in termini estetici come bella o brutta, ma in termini morali e filosofico-politici.

Nella piazza della città di Sapri viene collocata la statua di una giovinetta, la spigolatrice della poesia. È una giovane ragazza, e ha il fondoschiena da giovane ragazza. È proprio così, ha il sedere di una donna. Un fatto anatomico, che sembra coperto da un vestito che però rivela chiaramente la forma di quello che c’è sotto. Che è una forma sessuata, perché la statua ritrae un corpo, e il corpo è sessuato.

Ecco però che una statua di provincia, come ce ne sono tante, tutte di solito bruttine, scatena l’indignazione generale, che viene ripresa da un linguaggio che suona un po’ alla Orwell: male, il corpo femminile della statua è stato “sessualizzato”! Pare, stando a questo linguaggio, che si possa parlare davvero della sessualità come di un’aggiunta al corpo e che questo sia inaccettabile; proprio non va, è poco progressista, anzi non lo è per niente, è sessista, riflette una biopolitica manipolata in senso patriarcale, ha il torto di vedere le donne solo sotto il profilo sessuale.

Arrivano valanghe di condanne; i progressisti inclusivi e rispettosi delle donne vedono subito in questa ragazza senza dubbio una put**na, e la ribattezzano la “sgualdrina di Sapri”.

Alla resa dei conti, si scopre, dunque, che il principio liberale della libertà d’espressione non interessa così tanto; è considerato una vecchia idea da liberal. Guardando però anche al contenuto delle critiche e non solo alla forma, gli argomenti che sono emersi appaiono anch’essi discutibili.

Il liberale che aveva difeso la libertà dei disegnatori di Charlie Hebdo deve fare i conti con una condanna che non considera una statua secondo un criterio estetico, ma la considera secondo un criterio esterno all’opera. Per le opere d’arte belle, il riscatto dalla condanna morale è spesso un risarcimento, ma tutto sommato anche le opere non riuscite o magari brutte o sopra le righe (come magari è il caso di quest’opera) hanno il diritto di essere giudicate per quello che sono, senza un’evidente sovrapposizione di visioni generalissime ed epocali. In nome di un’idea di purificazione sociale appare invece doveroso il linciaggio di uno scultore per aver rappresentato realisticamente – o peggio, dal suo maschile punto di vista – un sedere. Lo scultore è diventato un mezzo criminale e guai a chi non capisce che ha dato vita al monumento allo stupratore e al maschilismo patriarcale.

Più assurdo ancora che l’anatomia di una donna sia stata presentata come un’offesa per tutte le donne. Come se fosse dato per implicito che il sedere di una donna è inopportuno in quanto tale, fuori luogo, qualcosa che indica, per le stesse donne, un motivo di umiliazione e di imbarazzo. E tutto questo sembra normale, anzi progressista e anti-patriarcale.

Se non si avverte la contraddizione tra l’indignazione davanti al sedere della statua di Sapri e l’indignazione per la copertura dei sederi delle statue nei Musei Capitolini che fu apprestata per non disturbare l’iraniano Hassan Rohani, questo avviene per una strana battaglia del Bene sul Male, che ha aspetti in se stessi contraddittori. Il punto che disturba è il fatto stesso che il corpo di una donna sia stato intenzionato dal punto di vista di uno scultore uomo. Perché proprio questo sguardo maschile sul corpo è colpevole: colpevole di attribuzione sessuale.

Al coro delle critiche si è unito anche qualche articolo di accademico, che ha suggerito che sì, beninteso, la libertà dell’artista è sacra, ma c’è pure il decorum (che però è un metro estetico autoritario). L’arte, è stato poi detto, deve fare attenzione al contesto sociale, non certo (e non sia mai) per sottomettersi al politicamente corretto, ma perché, sembra di capire, gli artisti si sarebbero sempre sottoposti al contesto socioculturale. Tesi, questa, che però nega in radice all’arte di essere eversiva, irriverente, eretica. Otto e mezzo di Federico Fellini, un film del 1963, mostra non solo il coraggio dell’autore, ma anche la raffinatezza del pubblico che lo ha apprezzato. Altri interventi pensosi e severi contro la statua di Sapri hanno cercato di fondarne la natura perversa e senz’altro maschilista sulla base di un confronto nientemeno che con l’intera arte statuaria classica. Che già così pare un po’ fuori scala.

Tira, insomma, un’aria particolare. Che è la solita aria che la sensibilità liberale riconosce al volo. Pare sia diventato difficile vedere la violenza insita nell’accusa di aver “sessualizzato” in una scultura il corpo di una donna. Desessualizzare il corpo – immagino facendo un fondoschiena “modesto” – è comunque sessualizzarlo. Un esempio di desessualizzazione dei corpi, peraltro, lo abbiamo: è il velo islamico.

L’articolo continua nel nuovo numero di Nonmollare

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