“Sono arrivato a Kabul con mia moglie e mia figlia dopo un lungo viaggio. Eravamo nella lista italiana per l’evacuazione, ma siamo rimasti bloccati in aeroporto. Dall’interno dei funzionari mi chiamavano sul cellulare, ma non c’è stato verso. Adesso siamo tornati a Herat e temiamo per la nostra vita. I Talebani sono a caccia dei collaboratori dell’Occidente”. Tra le migliaia di persone disperate in cerca di un “pass” verso la salvezza, stipate come sardine ai cancelli dell’aeroporto della capitale afghana nei giorni della fuga drammatica dei collaboratori di ambasciate e contingenti Nato, c’era anche Yalani Faiz Ahmad. Per sedici anni, dal 2004, ha lavorato all’interno di Camp Arena, la base militare del contingente italiano della missione Isaf e poi Resolute Support a Herat. All’epoca iniziò il suo lavoro per i soldati italiani come cameriere, poi col tempo ha assunto sempre maggiori competenze diventando a tutti gli effetti un operatore “italiano”. L’emergenza pandemica Coronavirus ha interrotto il suo lavoro nella primavera 2020.

Prima o poi sarebbe tornato a svolgere le sue mansioni per servire il contingente italiano, ma prima l’applicazione degli accordi di Doha, poi la rapida escalation dell’estate hanno modificato i piani. Nei giorni concitati del fuggi fuggi generale, successivi alla presa del potere da parte dei Talebani tra ferragosto e la fine dello stesso mese, Faiz Ahmad si è messo in azione: “Sapevo di essere stato incluso in quella lista”, racconta al fattoquotidiano.it, “io come altri colleghi a lungo in servizio a Camp Arena nel corso degli anni. Poi, subito dopo la presa della capitale da parte dei Talebani è arrivata la telefonata che aspettavo: dovevo partire verso la salvezza, io e la mia famiglia saremmo stati evacuati. Così mi sono preparato per il viaggio da Herat verso Kabul”. Cioè 850km per la strada diretta ovest-est, ridotta in pessime condizioni, oppure percorrendo metà ‘anello’, verso nord attraverso Mazar-i-Sharif o verso sud transitando a Kandahar e Ghazni.

“Mia moglie ha indossato il burqa azzurro, molto usato dalle donne di Kabul, nascondendosi in pratica per dare meno nell’occhio durante i controlli lungo il percorso. Arrivati nella capitale ci siamo fiondati in aeroporto, ma c’era una confusione incredibile. Impossibile anche il solo avvicinarsi ai cancelli, una folla sovrumana spingeva, gente che sveniva, scontri a fuoco. Un inferno. Fino alla grande esplosione all’esterno dello scalo aeroportuale”. Era l’attentato che il 26 agosto ha provocato oltre 200 vittime e reso ancora più insicura l’area. Yalani aspetta la svolta: “Poche ore dopo l’esplosione ho ricevuto l’ennesima chiamata da un funzionario internazionale sul mio cellulare, un numero privato. Mi confermava l’evacuazione, che eravamo in quella lista, e mi diceva di tornare indietro e attendere una nuova chiamata. Purtroppo quel segnale non è mai arrivato. Abbiamo atteso tre giorni in hotel a Kabul, poi, visto il silenzio totale abbiamo deciso di tornare a Herat”.

Durante la drammatica attesa nel carnaio all’esterno dello scalo internazionale di Kabul Yalani è stato intervistato dalla giornalista della Cnn Clarissa Ward: “In Afghanistan l’hanno vista tutti, è passata sul satellite e sui canali informativi locali e adesso rischia di causarmi dei problemi. Parenti, amici, vicini di casa, semplici conoscenti e quindi anche i Talebani di Herat e i loro collaborazionisti sanno che io ero a Kabul nel tentativo di lasciare l’Afghanistan”, ammette preoccupato l’ex cameriere della base italiana.

Sono in tanti a essere sulle spine per le sue sorti. Tra loro Dario Cananzi, a Camp Arena per due anni in passato dove ha gestito per conto della Es-Ko International il ristorante e tutto l’apparato ricettivo della missione Isaf italiana: “Con Faiz si è formato un rapporto privilegiato all’epoca”, racconta Cananzi, che nei giorni scorsi ha accolto in Italia e sta fornendo supporto a una dozzina di famiglie afghane presenti nelle liste di evacuazione italiane. “I militari italiani l’avevano soprannominato “Gigi” per la sua brillantezza, per il desiderio di imparare la nostra lingua. A Herat gestivo una settantina tra cuochi, camerieri, venditori, molti dei quali sono riusciti a partire. Faiz, purtroppo, almeno per ora, non ce l’ha fatta. Il giorno che ho lasciato l’Afghanistan non ci siamo potuti incontrare, ma lui ha fatto di tutto per recapitarmi un vaso pieno di zafferano. Purtroppo al controllo doganale in aeroporto non me l’hanno fatto passare”.

Anche Rosanna De Carlo, cuoca lucana, per tre volte in missione proprio alla base di Camp Arena tra il 2013 e il 2014 col contingente italiano, ha conosciuto molto bene Faiz: “Una persona speciale, altruista e sempre sorridente nonostante la vita lo avesse messo duramente alla prova”, racconta. “Lui ha perso una bambina uccisa dalla polmonite, il padre è rimasto ferito da una mina. Ogni giorno per venire al lavoro si faceva 16 chilometri in bici, ma non l’ho mai visto abbattuto o arrabbiato. Era una gioia vederlo ogni giorno. È possibile che il suo carattere mite non lo abbia favorito in quei giorni convulsi a Kabul mentre cercava di entrare in aeroporto. Quando me ne sono andata ho lasciato un mio anello per l’altra figlia, Fatima”.

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