Diciamoci la verità, il Dune di Denis Villeneuve era il film più atteso di questo 2021. Presentata a Venezia e accolta tra pareri ondivaghi tra l’osannante entusiasmo e le critiche acide d’oltreoceano e non, la nuova versione cinematografica del romanzo di Frank Herbert arriva nei nostri cinema il 16 settembre, cercando di essere il più fedele possibile a quelle pagine fantascientifiche pubblicate nel 1965. Ma è solo un part one, si legge nel titolo di testa su grande schermo, quindi già cominciamo con la consapevolezza che siamo di fronte a un’operazione da sequel.

Vi chiedete quanti? Chi può dirlo? Questo film scandaglia metà libro, ma a voler esser tignosi, nel Ciclo di Dune i romanzi di Herbert sono in tutto sei fino al 1985, anno precedente alla sua morte. Per il resto la bibliografia è lievitata negli anni con 25 romanzi aggiunti da altri autori, sfruttando l’universo diventato mitico intorno al pianeta Arrakis come un format da allungare a ogni costo. L’ultimo addirittura annunciato a fine settembre 2021.

Ma parliamo di Villeneuve. Siamo nel 10.191 dopo Cristo e la famiglia ducale dei Atreides viene richiamata sul pianeta desertico Arrakis, niente poco di meno che dall’imperatore dell’universo conosciuto per gestire l’estrazione della “spezia”, elemento d’inestimabile valore commerciale che dona agli uomini il potere di guardare avanti nello spazio e nel tempo, consentendo l’orientamento nelle rotte interstellari e fungendo anche da super combustibile per le stesse astronavi. Il tratto metafisico di Dune, con questa sostanza simbolicamente a metà strada tra peyote e petrolio, è sempre stato concettualmente affascinante.

Una fantascienza umanista quella che Villeneuve vuole mantenere di Herbert, fatta di rituali e soprattutto ambientalista. Le trivellazioni per la spezia distruggono il pianeta e i Fremen, popolo indigieno e misterioso, combattono contro questo sfruttamento della terra. Così assisteremo alle lotte sostenute dal severo ma giusto personaggio desertico di Javier Bardem e da quello di Zendaya. Ma pure al rispetto del Duca Leto Atreides, appena salito al potere, quanto alle trame degli Harkonnen, casata opulenta capeggiata da uno Stellan Skarsgård in versione villain obeso volante, il temibile Barone Vladimir Harkonnen.

In mezzo il giovane rampollo Paul Atreides, un Timothée Chalamet adunco ma magicamente saldo al suo ruolo di guerriero, i cui sogni dettano il futuro. Le macchine sono state sconfitte per far spazio a un mondo interplanetario più spirituale, mistico, forse fu questo dettaglio a rapire Alejandro Jodorowsky, regista che progettò il film ancor prima di David Lynch, per poi vederlo sfumare in un progetto mai approdato al set.

Villeneuve lavora su personaggi abbigliati a volte in maniera vescovile, sintetizzando quasi ogni immagine in un’apparente distanza tra soggetti e sfondo che in realtà è spazio scenico allargato, ipercinematografico, dominato da figure centrali che sono i personaggi nei vari quadri, rendendo il pastiche ipnotico e contemplativo, non un blockbuster come ci si aspetterebbe. Ed è un coraggioso pregio. Tutto sembrerebbe spoglio, al contrario del Dune di Lynch, ma le musiche di Hans Zimmer, sontuose o di cori berberi dominano quasi tutto il sonoro.

Splendido manuale scenografico questo lavoro, paradiso dei bozzettisti, eldorado di fotografia, tripudio tecnico che offre il suo massimo nella contemplazione statica del bello, mentre nella dinamica delle azioni, dei grandi crolli di edifici o navi, inseguimenti aerei o nelle sequenze di scontri corpo a corpo tra eserciti mostra a volte i suoi lati più fragili, pochi in verità, ma un po’ meno impattanti rispetto al “cinema fermo”, qui ancora più definito, che abbiamo amato in Arrival o in quasi tutto Blade Runner 2049.

Una citazione dal romanzo che torna nel film: “La paura è una piccola morte che porta all’annullamento totale”. Così questo Dune risulta un’esperienza su grande schermo che annulla il passato cinematografico del romanzo Dune, ma al tempo stesso suggerisce inevitabilmente ciò di cui Lucas si appropriò nel suo primo Star Wars del ’77 che divenne matrice dell’immaginario cinematografico da fine Novecento in poi. Dopo questo film rivedrete più nettamente il capitombolo Lynciano del Dune 1984, dove la strega aveva il volto di Silvana Mangano, peraltro. Era prodotto da Dino De Laurentiis.

E se dopo il produttore indie che faceva film da major la Warner cercasse in Villeneuve un nuovo Lucas per avere il suo Star Wars? Una stilettata di sfida alla Disney? Forse anche la presenza di Oscar Isaac, qui Duca Leto e in LucasFilm aviatore della terza trilogia, potrebbe esserne un segno. Ma no, al diavolo i cinecomplottismi. Sì, ma se i classici hanno preso da esso, allora è come i Beatles questo Dune? Un po’ sì, Herbert stabilì inconsapevolmente diversi dettami riutilizzati in tantissima fantascienza a venire, e il pezzo mancante di questo cerchio di fuoco è probabilmente il film mai girato da Jodorowsky.

Proprio in questi giorni è nelle sale Jodorowsky’s Dune, documentario dove il poliedrico regista, artista e scrittore ottantaquattrenne sciorina la storia di come all’inizio degli anni Settanta stava mettendo insieme un cast stellare, con Orson Welles, Mick Jagger, Salvador Dalì e David Carradine. Più disegnatori come Moebius e Giger. Obiettivo: girare il primo film sul romanzo di Herbert. Dopo questo mancato set Giger creò tutta l’estetica di Alien, per dirne una. Gli altri nomi sono ancor più noti. Tutti orientati a girare il film di fantascienza definitivo, a detta di testimoni come Nicolas Winding Refn, regista visionario e pupillo di Jodo, più giovane del progetto in realtà ma che “ha visto il film” solo attraverso gli storyboard. Il progetto si arenò, ironia della sorte, in dune di sabbia chiamate major.

Guardare il documentario oggi fa anche sorridere per temerarietà e folklore dei racconti del regista più psichedelico di sempre. Sono gustosissimi i suoi aneddoti legati a ogni grande nome coinvolto nel progetto. Ma il documentario apre anche gli occhi su quanto e come la transmedialità di un’opera letteraria crei figli e linee estetico-narrative poi riprese dai posteri. Come accade ancora oggi anche nel Signore degli Anelli, ad esempio, che presto sarà anche serie.

“Perché non dovremmo essere ambiziosi? Perché? Abbiate tutta l’ambizione che potete. Vuoi essere immortale? Lotta per esserlo. Fallo. Vuoi fare la più fantastica opera cinematografica? Provaci. Non importa se fallirai. Bisogna provarci!” Ci grida Jodorowsky dalla sua poltrona mentre stringe le tavole dei suoi adorati storyboard. A tracciare le citazioni su Dune in classici insospettabili ci pensa invece il critico Devin Faraci.

Una rivelazione e una miniera di chicche questo documentario di Frank Pavich. Ovviamente Villeneuve non sta lì dentro, ma se lui si riavvicina rimodernandola alla filosofia originale con cui nasceva il romanzo originale, mentre Lynch la tradiva con il subbuglio imposto dalla produzione conta-incassi, Jodorowsky ne avrebbe potenziato ed esaltato al massimo tutti i marcatori più spirituali, messianici e intangibili. “Un Lsd cinematografico”, da lui stesso definita così la sua idea di Dune.

Mentre il film Warner invaderà i multisala, il piccolo grande documentario su “JodoDune”, com’è stato ribattezzato, prima uscito come evento cinematografico il 6, 7 e 8 settembre, prosegue il suo tour italiano in città selezionate come singoli eventi per cinefili: Courmayeur il 18/9, Parma il 20/9, Civitanova Marche 21-22/8, Varese, il 23/9, Brescia i 30/09 e 1/10, Milano e Firenze il 21/9. Il papà della psicomagia lo sentirete parlare senza peli sulla lingua del lavoro di Lynch. Sarebbe il massimo ascoltare cosa pensa di quello di Villeneuve.

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