Un universo chiuso, opprimente, senza respiro, rafforzato da una fotografia spesso dominata da toni scuri che fanno pensare a Caravaggio per come vengono trattati i corpi, che sembrano in certi momenti fuoriuscire dalla luce. E’ l’universo di detenuti e agenti carcerari raccontato da Leonardo Di Costanzo in Ariaferma, presentato fuori concorso alla Mostra di Venezia. Ariaferma, tutta una parola, come se anche l’aria tra le parole mancasse in quell’universo soffocante.

In realtà il carcere sarebbe in dismissione e tutti dovrebbero partire l’indomani, ma un improvviso ostacolo obbliga a trattenere dodici detenuti – diventeranno poi tredici con l’arrivo di un giovane scippatore. Con loro un manipolo di agenti: la contrapposizione all’inizio è forte, non c’è comunicazione. Da una parte l’inflessibilità della legge, dall’altra le proteste dei detenuti, che rifiutano il cibo precotto che viene loro propinato. Di Costanzo mostra spesso questa contrapposizione traducendola in immagini che paiono tagliate in due, come splittate, con l’agente di spalle in avampiano a destra e il detenuto sullo sfondo a sinistra. Mondi inizialmente lontani, anche visivamente.

Ma la storia evolve, e drammaturgicamente cresce: Lagioia, il boss dei detenuti (Silvio Orlando) propone di riaprire la cucina e di preparare il vitto per i compagni, sotto lo sguardo attento dell’agente Gargiulo (Toni Servillo). Il quale, dietro l’impassibilità del volto, nasconde un andirivieni di atteggiamenti, tra la distanza del tutore della legge e il progressivo intervento di un sentimento di comprensione, se non di comunità o fratellanza. Tutto il film del resto si gioca sugli sguardi: gli sguardi di tutti, ma soprattutto gli sguardi dei due protagonisti, che restituiscono il percorso che via via ciascuno fa per avvicinare l’altro.

La scelta della cucina potrebbe essere pericolosa, perché in cucina si maneggiano coltelli, ma l’agente, che tutto ha calcolato, preferisce correre il rischio. E il rischio potrebbe essere anche maggiore quando, durante un temporale, salta la luce nel carcere e tutti restano al buio: non potendo fare diversamente, i detenuti cenano nello spazio circolare al centro del carcere, concepito come una classica struttura da panopticon. Ma insieme ai detenuti, in una sorta di laica Ultima Cena, mangiano anche gli agenti. Le regole si allentano, si accenna perfino un brindisi ed esce pure una bottiglia di vino. E’ il culmine del percorso di reciproco riconoscimento, perché, sembra dire Di Costanzo, dietro e al di là di ogni ruolo o ogni casacca c’è sempre una comune pasta umana.

Infine la luce riappare e ognuno torna nelle sue celle. Quel momento di condivisione è finito. Le parole dei detenuti vengono sovrastate dal suono di battiti ritmati di mani – la bellissima Clapping di Steve Reich – che invadono lo spazio sonoro e impediscono letteralmente ogni altro ascolto. E’ forse la sequenza più sensorialmente coinvolgente di tutto il film: le luci che si spengono all’unisono, un’inquadratura dall’alto che mostra la geometria dello spazio circolare centrale vuoto, il clapping ossessivo delle mani, tutto dà l’idea visiva e sonora di un ordine tornato nelle mani di un’istanza superiore e quasi astratta. La vera contrapposizione in fin dei conti è questa, tra l’umanità di tutti e l’astratto dominio della Legge, tra la condivisione e la separazione, tra il cuore e la mente. L’umanità riemerge, questa volta nella forma intima e piena, nel bellissimo finale del film, nel quale l’agente e il detenuto, i due simboli di universi incommensurabili, si riconoscono definitivamente attraverso i padri. E camminando finalmente con lo stesso passo si avviano alle loro occupazioni.

Non c’è retorica né buonismo in questa scrittura asciutta e in questa regia implacabile nello scrutare i piccoli spostamenti dei sentimenti nelle pieghe di una ruga, in uno sguardo trattenuto, nell’unione dei destini. Perché creare, come diceva Bresson, non vuol dire inventare persone e cose, ma stabilire dei nuovi rapporti tra persone e cose che già esistono.

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