Tutto si consuma in un istante. Come un lampo che illumina la notte prima di venire nuovamente inghiottito dal buio. Ancora. E ancora. E ancora. Gli ultimi anni di Patrik Schick sono condensati tutti qui, nel tentativo di dilatare quel momento di luce, di eternarlo fino a dissipare le tenebre una volta per tutte. L’attaccante ceco è tante cose diverse. Tutte insieme. Idolo e zimbello, brillante e sciagurato, presenza e assenza, genialità e insipienza. Vederlo giocare vuol dire salire sulle montagne russe. Su, verso il gesto tecnico più sublime. Giù, verso l’errore più grottesco. Senza sapere mai cosa ci si troverà dietro alla prossima curva. In questo Europeo su Patrik Schick sembra essere caduta una polverina magica, un incantesimo che gli ha restituito fiducia e ha soffiato via tutte le sue paure.

Perché l’attaccante ceco non si è limitato a realizzare quattro delle cinque reti messe a segno dalla sua Nazionale. Ha scolpito nella memoria collettiva alcuni momenti iconici della competizione, ne ha ridefinito l’estetica. Prima contro la Scozia, con un pallonetto da 45,5 metri contro che ha irriso Marshall. Poi contro la Croazia, con un calcio di rigore battuto con il naso ancora insanguinato. Due gol che hanno alimentato una narrazione tutta nuova su Schick. Non più un calciatore molle e indolente, ma una punta adamantina, feroce, affamata. E finalmente libera di tradurre a livello pratico quella idea di calcio che si era formata nella sua testa. Ed è proprio questo il problema. Perché la sfera emotiva di Schick sembra aver fagocitato tutto il resto. Uno svolgimento coerente con l’incipit del suo romanzo. Per l’attaccante ceco giocare a calcio ha significato più eternare un conflitto che esorcizzarlo. Lo scontro inizia fin da piccolo. Già dentro il contesto familiare. Il padre accompagna Patrik alle partite, ma non è esattamente il suo primo tifoso. Ogni volta che il figlio sbaglia si lascia andare a smorfie piuttosto plateali. Il ragazzo sente la rabbia gonfiarsi nello stomaco fino a quando non riesce più a trattenersi.

“Quando avevo 12 anni stavamo giocando un torneo con lo Sparta Praga – ha raccontato – mio padre scosse di nuovo la testa e gridò qualcosa. Così mi sono voltato verso di lui e gli ho mostrato il dito medio”. Il dissidio è benzina nel suo motore. Lo fa andare avanti. Anche se non sempre nella direzione giusta. Gli sbalzi di umore sono più difficili da dribblare degli avversari. Quando segna Schick si precipita a raccogliere il pallone in fondo al sacco e lo riporta verso il centro del campo, come se non avesse fatto niente di speciale. Ostenta una sicurezza che non gli appartiene, che può sciogliersi in un attimo. Perché a volte, quando sbaglia un’occasione piuttosto semplice, si mette addirittura a piangere. Nel 2017 la Sampdoria lo acquista per 4 milioni di euro. Ma l’inserimento procede lentamente. Quando arriva a Genova Marco Giampaolo gli chiede di presentarsi. Una circostanza che lo lascia spiazzato. “Mi resi conto che non sapeva chi fossi – ha raccontato al magazine ceco Reporter qualche mese dopo – a volte mi sono chiesto se sarei dovuto rimanere allo Sparta”. La svolta arriva alla fine di ottobre. A Torino. Contro la Juventus. “Probabilmente Giampaolo voleva farmi fuori dandomi una chance per poi avere motivi per non farsi rompere le scatole dopo una sconfitta. Ma andò abbastanza bene e dopo un quarto d’ora segnai”.

È l’inizio di un rettilineo. O almeno così sembra. Perché i tornati arrivano quasi subito. “Due giorni dopo, in allenamento, sbagliai un paio di volte e Giampaolo cominciò a urlarmi contro in modo isterico”. E ancora: “Nella partita successiva l’allenatore mi fece scaldare all’intervallo, ma al 18′ mi disse di sedermi perché sarebbe entrato qualcun altro. Ma poi lui fu allontanato per proteste e il suo secondo mi chiamò: nella mia testa avevo già smesso di giocare, ma entrai e segnai al 90esimo”. Il dato più interessante di Schick alla Sampdoria è la semplicità con cui riesce a giocare. Non sembra correre, sembra pattinare sull’erba. Non spinge mai sui quadricipiti, non ha bisogno di metterla sul fisico. Basta la sua capacità di trasformare un tocco in una gemma. A fine anno segna 13 gol senza diventare un titolare fisso. Ma viene risucchiato in una dimensione parallela, dove tutto assume contorni surreali. La Juventus lo acquista, lo sottopone alle visite mediche, poi lo molla. All’improvviso. I bianconeri dicono che il calciatore ha un’infiammazione al cuore. Dispiace molto, ma loro quell’affare non lo possono proprio chiudere. Per Schick è l’inizio di una lenta caduta in un abisso. A Genova non vuole rimanere. Ma non è neanche convintissimo di firmare con la Roma. Anche se pur di averlo Monchi viola un paio dei comandamenti che guidano il suo modo di fare mercato. Alla fine l’affare di chiude. Con una formula cervellotica che fissa il costo dell’operazione a 42 milioni. Una cifra record per i giallorossi. Neanche Gabriel Omar Batistuta era costato così tanto. L’entusiasmo dura poco. Giusto il tempo di aprire un giornale. Perché l’intervista a Record crea la prima frattura con i tifosi.

I passaggi incriminati sono due. “Tra un paio d’anni spero di spostarmi dove sarò pagato ancora meglio. Dove? Difficile migliorare rispetto alla Roma. Restano Real Madrid, Barcellona o Manchester United”. E ancora: “Probabilmente non correrò mai ad aggredire gli avversari come un pazzo”. Sono parole tradotte dal ceco. E che quindi potrebbero non essere totalmente affidabili. Ma tanto basta. Al resta ci pensa un equivoco tattico. La Roma aveva venduto Moma Salah e aveva seguito Riyad Mahrez per gran parte dell’estate. Ma non era riuscita a chiudere la trattativa. Il rischio di trovarsi scoperta era elevato. Così Schick era diventato l’uomo che doveva chiudere il tridente offensivo. A un calciatore che non faceva del dribbling e della spinta la sua dote principale veniva chiesto di giocare esterno per poi magari accentrarsi. L’esperimento non dà grandi risultati. In due stagioni il ceco gioca 49 partite in Serie A. E segna appena 5 gol. Solo che la parte peggiore deve ancora venire. Perché in questo gioco di sottrazioni c’è un’azione che diventa il simbolo delle sua avventura romana.

Nel dicembre del 2017 i giallorossi giocano allo Juventus Stadium. I bianconeri sono in vantaggio per 1-0, quando un tocco di Benatia libera Schick. Il ceco ha campo davanti. E davanti a lui c’è solo Szczesny. La punta prende la mira e spara sul portiere. È un errore surreale, che diventa ancora più imbarazzante poco dopo, quando l’estremo difensore bianconero si presenta davanti alle telecamere e dice: “La parata su Schick? Ha sbagliato lui, non ho salvato io la Juve”. Una frase che il polacco si rimangerà due anni più tardi, quando definirà quell’intervento il più importante della sua carriera a Torino. Un errore che lo trasforma in parodia in calzoncini e maglietta, in esubero da piazzare sul mercato. Nella speranza che qualche club decida di farsene carico. “Sinceramente, non ero pronto al 100% ed ero un po’ troppo giovane per le sfide della Serie A – ha detto qualche giorno fa a Repubblica – È vero che avevo fatto un ottimo primo anno con la Sampdoria. Ma poi quando vai in un grande club, come la Roma, le difficoltà crescono e non sono stato all’altezza in quel momento”.

Le tappe successive diventano un viaggio per ritrovare sé stesso. Prima al Red Bull Lispia, poi il Bayer Leverkusen. “Siamo arrivati sesti, non così male, ma certo volevamo andare in Champions. Dal punto di vista personale, non è stata una brutta stagione, ho segnato 12-13 gol e offerto diversi assist, ma certo posso giocare molto meglio”. Una teoria che ha trovato la sua applicazione pratica in questo Europeo. Perché i tornei così brevi e adrenalinici possono tirare fuori il meglio da un giocatore con i colpi di Schick. “Credo che noi andremo avanti e che Patrik ci guiderà con i suoi gol”, aveva detto prima degli ottavi il commissario tecnico della Repubblica Ceca, Jaroslav Silhavy. Una profezia che spera di poter applicare anche a questi quarti. In palio non c’è solo un posto in semifinale. Ma anche la possibilità di eguagliare il titolo di capocannoniere vinto da Milan Baros a Euro 2004 con 5 gol.

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