Il futuro del credito al consumo (finanziamenti concessi dalle banche o società finanziarie per permettere al beneficiario l’acquisto di beni e servizi o eventualmente la rateizzazione di una spesa) dovrà basarsi su un modello molto simile a quello utilizzato da Amazon per la vendita dei prodotti di largo consumo. Le istituzioni creditizie che per prime diventeranno le Amazon dei prestiti avranno un vantaggio competitivo di un quinquennio (poi saranno copiate) che le farà uscire dalle paludi delle perdite (in bilancio) e assicurerà loro la sopravvivenza.

Il modo migliore per metabolizzare questa premessa è capire e vedere come funziona oggi il processo di erogazione di un prestito nella maggior parte degli istituti di credito e nelle società finanziarie. Semplifichiamo i concetti: sostanzialmente quando un privato cittadino va a richiedere un prestito, la banca (o la società finanziaria) ha bisogno di due tipi di informazioni. Uno legato alla “quantità” della domanda: di quanto hai bisogno? In quanto tempo deve essere ripagato il prestito? Qual è l’importo della rata che puoi sostenere? In secondo luogo, vengono chieste informazioni sulla “qualità” della persona: che lavoro fai? Dove abiti? Qual è la tua origine? Qual è il tuo stipendio?

Queste informazioni vengono poi “processate” (verificate ed elaborate) da un algoritmo che innanzitutto controlla la storia creditizia di quella persona: ha già ricevuto altri prestiti? Come li ha condotti? Ci sono prestiti che non sono stati rimborsati? Nel caso in cui il richiedente abbia avuto problemi con i prestiti pregressi oppure, paradossalmente, non abbia (finora) mai chiesto un finanziamento (e quindi non è possibile valutarne la solvibilità), la richiesta viene sicuramente rifiutata. Se invece il richiedente supera favorevolmente questa selezione, l’algoritmo fa un secondo controllo e cioè verifica se persone che hanno lo stesso lavoro, la stessa provenienza geografica, la stessa età e lo stesso stipendio sono di solito dei cattivi pagatori. Cioè l’algoritmo verifica se richiedenti con le stesse caratteristiche socio-demografiche appartengono a categorie di “buoni pagatori” o di “cattivi pagatori”.

Tale appartenenza determina l’accettazione o il rifiuto della concessione.

In altri termini, tu puoi essere la persona più onesta e corretta di questo mondo ma se hai la “sfortuna” di fare una professione, avere una età o vivere nella stessa area geografica di “cattivi pagatori”, allora paghi la cattiva reputazione dei tuoi “simili”. Il prestito non lo vedrai mai! Esempi facili da riscontrare soprattutto quando si tratta di acquisti nel settore della tecnologia (smartphone) o dell’automotive (automobile). Mi è capitato di vivere una esperienza del genere la settimana scorsa quando un mio cliente, imprenditore di successo, solido e solvibile, si è visto rifiutare un piccolo prestito per l’acquisto di una autovettura richiesto unitamente alla moglie, extracomunitaria e casalinga.

L’unica risposta fornita dalla banca: “Ci sono segnalazioni negative nelle banche dati creditizie”.
Una indicazione generica, senza specificare il tipo di informazione negativa o il “peso” della negatività; semplicemente consegnando un elaborato.

Analizzando poi in profondità le cause del rifiuto abbiamo scoperto che il motivo era legato al fatto che uno dei richiedenti (la moglie) “non aveva storia creditizia ed apparteneva ad un cluster (gruppo) senza reddito e con scarse probabilità di averne uno stabile in futuro”. Un criterio assolutamente classista e fortemente influenzato da pregiudizi di natura socio-demografica.

E se si cambiassero semplicemente le logiche di costruzione del “gruppo di appartenenza”? Se per capire se si tratta di buoni o cattivi pagatori, piuttosto che aggregarli secondo parametri molto macro (l’età o la residenza), andassimo a verificare (dopo averne chiesto il permesso e garantita la riservatezza) le transazioni e successivamente raggruppassimo le persone in base alla tipologia di movimenti bancari? Ricordate quanto diceva il giudice Falcone per individuare altri tipi di “cattivi”? “Seguiamo il denaro, non gli uomini… e capiremo tutto”! Ecco questa è la logica di base seguita da Faire.ai, fintech B2B specializzata nell’automazione del credito al consumo che sfrutta l’open banking (PSD2) come fonte di dati e utilizza il machine learning e l’intelligenza artificiale per stimare i modelli di rischio dei consumatori.

Come ha ragionato Faire.ai, che, da qualche settimana, ha lanciato sul mercato le prime API (software)? Anche in questo caso, cosi come ribadito in Salviamoci! (Chiarelettere), cercherò di semplificare, ben consapevole di non voler assolutamente sminuire il valore degli studi e delle competenze tecniche e professionali indispensabili per i giovani di Faire.ai per arrivare a questi risultati, ma sicuramente per rendere più leggibile ai dinosauri della finanza una esigenza che, ormai, è diventata necessità.

In parole povere, per innovare la metodologia di analisi nel credito a consumo, Faire.ai ha raggruppato le persone in base alle abitudini di spesa: ad esempio tutti quelli che fanno grosse spese in tecnologia, oppure ingenti spese in viaggi e così via… Analizzando questi cluster ed utilizzando la giusta tecnologia è possibile, poi, stimare la probabilità di default di un richiedente un prestito semplicemente osservando determinati andamenti di tutte le sue operazioni bancarie (la natura delle entrate, la tipologia e le abitudini di spesa, il livello di indebitamento, la capacità di risparmio).

Ragionando in questi termini, l’algoritmo può produrre questo tipo di conclusione: “Questa persona negli ultimi tre mesi ha avuto un andamento delle spese per la casa al di sopra della media degli appartenenti al suo gruppo di spesa che è potenzialmente a rischio per restituire un prestito; quindi forse il prestito è meglio non darlo”.

In secondo luogo, da non sottovalutare, questo tipo di approccio produce un enorme risparmio di tempo e di energie psico-fisiche per effetto della automazione che azzera processi di lavorazione preistorici, che prevedono la compilazione manuale di un questionario che poi viene passato di ufficio in ufficio per essere valutato ed eventualmente approvato e solo dopo una ventina di giorni fornire la risposta al richiedente.

Con questo software è possibile effettuare questo stesso identico iter addirittura in pochi minuti anche utilizzando lo smartphone (piuttosto che fare ore di fila presso uno sportello). Quante banche si sono interessate? Ancora poche e di piccole dimensioni. E questo è il dramma!

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