Dreamchaser, cacciatore di sogni. Memphis Depay ce l’ha tatuato sul petto ed è il filo che lega tutta la sua storia, fatta di cadute e risalite, di ascese e brusche frenate. Dalla cacciata dalle giovanili dello Sparta Rotterdam al primato del più giovane marcatore olandese in un Mondiale (20 anni e 4 mesi, primato soffiato nel 2014 in Brasile a Boudewijn Zenden), dal flop al Manchester United alla rinascita francese nel Lione, certificata dal fresco trasferimento al Barcellona. Cacciatore di sogni, certo, perché le alternative non sono poi molte quando si cresce in una famiglia disgregata nel quartiere delle Molucche di Moordrecht, cittadina nel sud dell’Olanda. Da fuori, Moordrecht sembra un’oasi di pace: monumenti, canali, un oceano di verde, una piccola oasi felice. Ma un giro nei quartieri popolari cambia le prospettive: criminalità, spaccio, guerra tra bande, casi sociali. Oggi Depay rappresenta l’archetipo del campione uscito dal ghetto. Ricco e talentuoso, un’icona contemporanea di un intero paese calcistico, ma anche un personaggio a tutto tondo dai molteplici interessi e dalle numerose sfaccettature. Soprattutto, vicino a quella maturità calcistica non così scontata, nemmeno per i talenti precoci. Contro la Macedonia del Nord Depay ha realizzato la sua rete numero 28 con l’Olanda, posizionandosi a sole tre distanze dalla top ten arancione di sempre, attualmente occupata da Wesley Sneijder a quota 31. Considerando l’età del giocatore, 27 anni, e ipotizzando almeno altri cinque anni ad alto livello, i 50 gol dell’attuale record-man Robin van Persie non sembrano essere una chimera.

Oggi Depay condivide la posizione nella classifica dei marcatori oranje con Bep Bakhuys, lui sì detentore di un primato difficilmente battibile, visto che con 28 reti in 23 partite vanta una media di 1,21 reti a incontro. Bakhuys è stato attivo soprattutto negli anni ’30 eppure, anche in un paese molto attento alla propria storia calcistica come l’Olanda, non lo ricorda quasi nessuno. Nonostante gli siano state dedicate due strade, una ad Amsterdam e l’altra a Zwolle. Nonostante in olandese uno dei modi per definire il gol di testa in tuffo, che noi chiamiamo a volo d’angelo, è proprio “gol alla Bakhuys”. Ma rimane un nome vuoto, sette lettere senza dietro nulla. Bakhuys era un dreamchaser, e il suo sogno era quanto di più banale oggi si possa immaginare: guadagnare soldi con il calcio, fare delle proprie qualità pallonare una professione.

Bakhuys è stato sconfitto dalla sua epoca. Il professionismo in Olanda fu introdotto solo nel 1954, costringendo molti campioni a trasferirsi all’estero (vedi Faas Wilkes, che giocò in Italia con Inter e Torino, e in Spagna con Valencia e Levante). Ma già vent’anni prima, Bakhuys lottava contro coloro che ritenevano non esistesse nulla di più spregevole di un calciatore che riceveva dei soldi per giocare. Lui però sapeva fare quello e nient’altro, peregrinando da un paese all’altro, andando e tornando dalle Indie Olandesi (l’attuale Indonesia, dove era nato), perché non potendo essere pagato era costretto a spostarsi per seguire gli studi, che andavano puntualmente male, e gli impieghi, spesso saltuari, che riusciva a trovare. Quando prese parte al Mondiale del 1934, il primo disputato dall’Olanda, lavorava in una società di assicurazioni. Dopo la sconfitta contro la Svizzera (un 3-2 accolto malissimo in patria, visto che le amichevoli di preparazione – 4 partite, 3 vittorie, 8 gol di Bakhuys – aveva generato un tale entusiasmo da far coniare il motto Wij gaan naar Rome, Andiamo a Roma, ovvero direttamente in finale), Bakhuys non si presentò più in ufficio, andando da Milano direttamente a Den Haag, all’epoca la capitale calcistica del paese, per cercare una squadra di livello più alto. Una condotta che lo lasciò ben presto senza soldi, tanto che fu costretto a vendere la medaglia che ricevette dalla Federcalcio olandese (KNVB) per la partecipazione al Mondiale.

Bakhuys faceva il procuratore di sé stesso. In campo ci pensavano i gol, copiosi, a far crescere la sua fama. Ci fu una rivista, Wij (Noi), che dedicò un servizio alle sue gambe nel tentativo di capire come potevano produrre tiri tanto potenti. Fuori dal terreno di gioco, era sempre alla ricerca di scappatoie per poter ottenere dei soldi grazie al suo talento, talvolta con ingenuità. Prima si trasferì da una delle più forti squadre olandesi, l’HBS Den Haag, a una di seconda divisione, il Vvv Venlo, insospettendo la KNVB, la quale non ci mise molto a scoprire che al giocatore era stato offerto un negozio di sigari, più un compenso extra (ovviamente non dichiarato), per giocare nel Limburgo. Fu sospeso dalla nazionale, ma solo perché secondo il regolamento FIFA (che approvava il professionismo) non poteva essere squalificato. Firmò un contratto con il Reims in Francia, poi si pentì e ne firmò uno con il Metz. Fu squalificato anche lì, salvo poi ottenere uno sconto di pena grazie a Jules Rimet. Ma la KNVB non lo perdonò mai, attuando un ostracismo dai contorni persino grotteschi. Il nome di Bakhuys sparì, perché i “mercenari” infangavano il nome del paese e andavano cancellati. Oggi Depay è un giocatore dal potere contrattuale immenso, e lo è per proprio merito. Ma è significativo che il suo nome abbia permesso, quantomeno per qualche giorno, di togliere dalla marginalità un pioniere della lotta per il riconoscimento di un diritto poi diventato prassi. Un Jean-Marc Bosman senza avvocati alle spalle, ma con molto, molto più talento.

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