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La Cina risponde alle accuse della Nato: “Noi una minaccia? Basta calunnie. Le nostre politiche militari sono difensive”

Non è piaciuto all'establishment cinese l'impegno preso dai trenta Paesi membri a unire le forze contro le "sfide sistemiche". Un cambio di rotta che riporta l'alleanza su un binario veramente atlantista, dopo il deragliamento durante i quattro anni di amministrazione Trump. Ma Pechino parla di "errore di valutazione della situazione internazionale e del proprio ruolo, è la continuazione di una mentalità da Guerra Fredda e della psicologia politica del gruppo"
La Cina risponde alle accuse della Nato: “Noi una minaccia? Basta calunnie. Le nostre politiche militari sono difensive”
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La Cina, così come la Russia, nel mirino della Nato, in una riedizione del Patto Atlantico che polarizza maggiormente le posizioni rispetto alle due potenze dopo l’ultimo summit dei Trenta a Bruxelles e che sa tanto di nuova Guerra Fredda. Ma Pechino non ci sta e contrattacca dopo le dure dichiarazioni dei leader dell’Alleanza, accusandoli di “creare scontri” e di “calunniare” il Paese, in riferimento all’accordo su un’azione comune per frenare le politiche del Partito Comunista Cinese: si deve “vedere razionalmente lo sviluppo della Cina, smettere con l’esagerare le varie forme di ‘teoria della minaccia cinese’ e non usare gli interessi legittimi e i diritti legali della Cina come scuse per manipolare la politica del gruppo”, ha scritto in una nota la rappresentanza di Pechino presso l’Unione europea. E all’accusa di rappresentare un rischio per la sicurezza globale lanciata dai membri Nato, il governo ha risposto che la spesa militare dell’Alleanza rappresenta la metà di quella globale, mentre la Cina porta avanti una politica “di natura difensiva”.

Le accuse della Nato, si legge nella dichiarazione, sono da considerarsi una “calunnia dello sviluppo pacifico della Cina, un errore di valutazione della situazione internazionale e del proprio ruolo, è la continuazione di una mentalità da Guerra Fredda e della psicologia politica del gruppo”. Non è piaciuto all’establishment cinese l’impegno preso dai trenta Paesi membri a unire le forze contro le “sfide sistemiche”. Un cambio di rotta che riporta l’alleanza su un binario veramente atlantista, dopo il deragliamento durante i quattro anni di amministrazione Trump. Joe Biden ha cambiato rotta e i primi a notare un cambio d’atteggiamento saranno proprio Mosca e Pechino, nonostante alcuni leader europei, incluso il presidente del Consiglio Mario Draghi, abbiano comunque voluto precisare che, nonostante ci si debba far trovare “pronti ad affrontare coloro che non rispettano le regole”, “il rapporto con la Cina va oltre la questione militare. È una grande potenza con la quale noi lavoriamo su questioni globali, per esempio il clima“, come ricordato dal presidente francese Emmanuel Macron.

Tra gli esempi contenuti nella dichiarazione conclusiva del summit sui rischi rappresentati dalla Cina, c’è anche quello dello sviluppo dell’arsenale nucleare da parte di Pechino e delle sue capacità di guerra spaziale e cibernetica che, sostengono, minacciano l’ordine internazionale. Anche su questo punto, però, la rappresentanza cinese a Bruxelles ha voluto controbattere: la Cina ha una politica militare che ha “natura difensiva” e un ammodernamento “giustificato, ragionevole, aperto e trasparente”, si legge. Inoltre, hanno presentato dati che mostrano come “la spesa militare della Cina nel 2021 è di circa 209 miliardi di dollari, solo l’1,3% del suo Pil e meno del livello dei Paesi della Nato che è del 2%”. La spesa militare dei trenta Paesi della Nato, invece, “dovrebbe toccare quest’anno 1.170 miliardi di dollari, oltre la metà di quella globale e 5,6 volte quella della Cina”. Il potenziale nucleare Nato, infine, “è 20 volte” quello di Pechino.

Un botta e risposta che si inserisce in quello già iniziato poche ore prima sempre tra Pechino e i leader del G7 che si sono riuniti in Cornovaglia. In quell’occasione l’ambasciata cinese a Londra era andata contro le posizioni del summit, colpevole agli occhi di Pechino di “manipolazione politica” dopo le critiche sulle politiche dei diritti umani della Cina nello Xinjiang e a Hong Kong, ma anche sulle relazioni con Taiwan.

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