“Le preoccupazioni per le bozze del decreto Semplificazioni? In questo contesto sono motivate, certo. Ma non illudiamoci: se anche togliamo il criterio del massimo ribasso e rimettiamo le soglie al subappalto il nostro sistema non diventa virtuoso. E il rischio è che l’Unione europea a un certo punto ci blocchi i versamenti”. Per Gustavo Piga, docente di economia politica a Tor Vergata dove è anche promotore del master Anticorruzione, il dibattito sul provvedimento che dovrebbe velocizzare le opere del Recovery plan sta facendo perdere di vista il vero problema. Che “è a monte e dovrebbe essere oggetto della madre di tutte le riforme, perché è da lì che viene il ritardo costante dell’Italia rispetto agli altri Paesi. Invece nessun governo se n’è occupato”. Il problema, secondo l’economista che all’inizio degli anni Duemila è stato presidente della centrale acquisti Consip, è la scarsa qualità delle pubbliche amministrazioni che affidano i lavori e in generale di tutto il sistema degli appalti pubblici. Secondo alcuni studi gli sprechi in questo campo ci costano ogni anno più del 2% del pil: oltre 30 miliardi. Più o meno i soldi che riceveremo nell’ambito del Next generation Eu.

Professore, per rispettare i tempi previsti dal Piano di ripresa bisogna accelerare. Prorogare il ricorso all’appalto integrato (che era già stato riportato in vita con il decreto Sblocca cantieri) e la possibilità di aggiudicare la gara al massimo ribasso, oltre a togliere i limiti al subappalto come chiedeva la Ue, è la strada giusta?
E’ la strada indicata dall’Europa con la direttiva sugli appalti del 2014: più discrezionalità per le stazioni appaltanti. Un modello ispirato alla grande riforma fatta negli anni Novanta dal Regno Unito, che su questo è diventato un modello virtuoso. Ma gli inglesi avevano creato le precondizioni perché la discrezionalità fosse l’ultimo tassello per una presenza dello Stato nell’economia – attraverso gli appalti pubblici, appunto – improntata a qualità ed efficacia. Noi nel 2016 abbiamo scritto un Codice che per l’80% ricalca la direttiva ma in più aggiunge altri limiti e requisiti. perché la discrezionalità ci terrorizzava. Ora ci stiamo arrivando spinti dall’esigenza di metterci in carreggiata per il Recovery. Ma stiamo introducendo discrezionalità senza che ci siano le tre precondizioni.

Quali sono le precondizioni perché la discrezionalità non sia dannosa?
Innanzitutto la competenza delle stazioni appaltanti, che richiede forti investimenti a fronte dei quali però il Paese ha un ritorno di dieci volte tanto in termini di qualità delle gare e mancanza di contenzioso con conseguenti risparmi di risorse e di tempo. Seconda precondizione è generare intorno alle competenze dei profili di carriera: il responsabile della stazione appaltante deve occuparsi solo di quello, essere molto ben pagato e avere degli avanzamenti legati alla valutazione della performance. E così arriviamo alla terza precondizione: i dati per misurare competenze e risultati.

Il Recovery plan non prevede investimenti in questi ambiti? Si parla di riforma della pa con nuove assunzioni, digitalizzazione, monitoraggio…
L’investimento complessivo per le competenze della pa previsto nel piano dal ministro Brunetta (ma anche il governo precedente aveva messo la stessa cifra) è di 700 milioni in sei anni: vuol dire 200 euro a dipendente. Poi c’è la creazione di una task force di 1000 professionisti con contratti a termine. Si immagini che impatto possono avere, con un orizzonte di soli tre anni. E si parla di digitalizzazione delle amministrazioni aggiudicatrici, ma prima di digitalizzarlo l’appalto lo devi scrivere bene.

Che cosa si doveva fare, invece?
Far partire queste riforme tutte insieme, con stanziamenti adeguati. Bene gli affidamenti diretti, il subappalto libero e il massimo ribasso, ma solo se in parallelo investi 10 miliardi in un database unico per monitorare le performance delle stazioni appaltanti, ne riformi la governance, metti fondi sufficienti per pagare molto bene funzionari e tecnici. Quanto al numero delle stazioni appaltanti, non possono essere 30mila come adesso ma nemmeno le 10 a cui punta il governo, perché le gare molto grandi tagliano fuori le pmi: secondo me la dimensione ottimale è quella della provincia. Così si ridurrebbero a un centinaio. Facendo tutto questo si sarebbe potuto far partire un circolo virtuoso. Invece stiamo lavorando a una sola “gamba”, sulle quattro necessarie.

Dato questo contesto, che impatto avranno le semplificazioni proposte dal governo (ammesso che le bozze siano confermate)?
Visto che non sappiamo valutare la qualità delle offerte è chiaro che, come dice Landini, il massimo ribasso si tradurrà in una peggiore qualità delle opere e forse del lavoro. Ma non dipende dal criterio in sé: la direttiva europea non vieta di utilizzarlo e molti Paesi lo fanno, perché se hai ben chiaro di cosa hai bisogno e sei in grado di controllare non è un problema. Vale anche il contrario: non è detto che il criterio dell’offerta “economicamente più vantaggiosa”, cioè quello che tiene conto anche della qualità, dia più garanzie: il rischio corruzione c’è anche lì e la discrezionalità è maggiore. Idem per il subappalto (se la stazione appaltante monitora le infiltrazioni criminali si evitano) e l’affidamento diretto: se sei in grado di scegliere bene sulla base dei risultati ottenuti in passato è vantaggioso, ma se i dati non li hai…

Ma almeno riusciremo a spendere rispettando il cronoprogramma?
Lo ripeto: questo non dipende dalle regole ma da chi gestisce gli appalti. Serve gente brava, competente, motivata, ben pagata, con performance verificate. Altrimenti è una giungla. Quindi può darsi che a un certo punto la Ue, che queste gare le guarderà da vicino, ci blocchi gli esborsi. Come è successo con i fondi europei per il Sud non spesi o spesi male. Insomma: non è una strategia senza rischi. E comunque una riforma del genere, la madre di tutte le riforme, ci sarebbe servita anche per tutti gli appalti del Paese non collegati al Recovery.

Se è la madre di tutte le riforme perché nessun governo l’ha fatta?
Può scrivere che a questo punto c’è stato un lungo silenzio.

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