di Roberto Iannuzzi*

La Russia è di nuovo sotto i riflettori dei media occidentali, ma il “caso Navalny”, che ha di gran lunga suscitato la maggiore attenzione, è solo il pretesto di uno scontro ben più profondo. Accanto a tale caso, spiccano l’aggravarsi delle tensioni attorno alla questione Ucraina e le recenti sanzioni imposte dall’amministrazione Biden contro Mosca. Queste ultime sono l’ultimo episodio di una guerra economica americana che sta spingendo progressivamente il Cremlino nelle braccia della Cina, vero avversario di Washington.

Alexei Navalny, pomposamente definito in Occidente come “l’oppositore di Putin”, in realtà è noto in Russia soprattutto per le sue campagne anticorruzione, e per essere successivamente divenuto il beniamino dei governi occidentali. Come leader politico egli ha un seguito alquanto esiguo, che lo scorso settembre oscillava tra il 2 e il 4% secondo un sondaggio del Centro Levada, istituto certamente non affiliato al Cremlino (tanto che nel 2016 venne classificato come “agente straniero” dal ministero della giustizia russo).

Navalny ha espresso idee spesso contradditorie, passando da posizioni nazionaliste e talvolta xenofobe (in particolare contro gli immigrati provenienti dal Caucaso e dall’Asia centrale) al neoliberismo classico, e perfino a un populismo di ispirazione socialista. Insomma, somiglia a quei leader anti-sistema che vengono bollati come “populisti” dalle élite al governo in Occidente, le quali tuttavia appaiono ben liete di sostenerne uno allorché si tratta di dar fastidio al Cremlino.

Pur presentandosi come una figura anti-establishment, Navalny ha corteggiato esponenti dell’oligarchia russa, dopo aver ottenuto nel 2010 una borsa di studio in America all’Università di Yale – considerata dai suoi dirigenti una “incubatrice di leader globali” – anche grazie ai buoni uffici di Garry Kasparov, ex campione di scacchi divenuto successivamente attivista anti-Putin.

Il suo controverso e misterioso avvelenamento da Novichok (un agente nervino) lo scorso anno, proprio mentre Stati Uniti e Gran Bretagna stavano tentando di bloccare in ogni modo il completamento del gasdotto Nord Stream 2 che avrebbe rifornito la Germania di gas russo, rappresenta solo uno degli innumerevoli episodi che hanno contribuito a deteriorare ulteriormente i rapporti fra Mosca da un lato, e Washington e le capitali europee dall’altro. Il diretto coinvolgimento del governo russo in questo avvelenamento è tuttavia difficilmente dimostrabile, così come non sono dimostrate altre accuse sulla cui base la Casa Bianca ha imposto l’ultima tranche di sanzioni a Mosca, come l’ingerenza russa nel processo elettorale americano (il cosiddetto Russiagate, rimasto non confermato malgrado quattro anni di indagini) e i presunti attacchi informatici, che restano sempre di dubbia attribuzione.

Vi sono invece pochi dubbi sul fatto che l’attuale crisi abbia radici antiche, che risalgono alla mancata integrazione europea della Russia alla fine della Guerra fredda. Tale integrazione, lungamente cercata da Mosca e inizialmente dallo stesso Putin, fu essenzialmente negata dalla continua espansione a est della Nato, nel contesto della nuova visione unipolare americana affermatasi all’indomani del crollo del blocco sovietico. Tale espansione fu accompagnata dal rafforzamento della presenza statunitense in Asia centrale, e dalle “rivoluzioni colorate” sostenute da Washington in Georgia, Ucraina e Kirghizistan fra il 2003 e il 2005.

La reazione militare di Mosca alla decisione del presidente georgiano Saakashvili di riappropriarsi delle regioni separatiste di Abkhazia e Ossezia del Sud nel 2008 fu il primo segnale che i russi erano determinati a impedire ad ogni costo una possibile espansione della Nato fino ai propri confini. Nel 2014, il rovesciamento del presidente ucraino Yanukovich da parte di un’opposizione rabbiosamente antirussa composta anche da elementi di estrema destra, in violazione di un precedente accordo che prevedeva la creazione di un governo di unità nazionale in vista di elezioni presidenziali, venne visto da Mosca come un golpe sostenuto dagli Usa (i quali avevano apertamente appoggiato l’opposizione) e come un nuovo punto di rottura con l’Occidente. La conseguente occupazione russa della Crimea fornì l’occasione a Washington per avviare una campagna di sanzioni economiche contro Mosca che ha continuato a inasprirsi fino ad oggi.

Nel frattempo, la “nuova Ucraina” sostenuta da Stati Uniti ed Europa è uno stato impoverito, afflitto da forti tensioni interne e da una guerra civile strisciante nella sua parte orientale. Il fragile presidente Zelensky non è in grado di implementare gli accordi di Minsk che dovrebbero porre fine al conflitto, perché ostaggio delle forze politiche più violentemente nazionaliste. La mobilitazione di truppe russe al confine ucraino sembra avere finalità dissuasive nei confronti di un’eventuale azione militare da parte di Kiev più che preludere a un’invasione russa.

Continuare ad utilizzare strumenti come le sanzioni e il caso Navalny per accrescere ulteriormente la pressione su Mosca, in un momento in cui il livello dei rapporti fra il Cremlino e Washington è già ai minimi storici, avrà l’effetto di rendere insanabile la frattura tra Russia e Occidente. L’Europa è certamente tra coloro che ne faranno le spese.

* Autore del libro “Se Washington perde il controllo. Crisi dell’unipolarismo americano in Medio Oriente e nel mondo” (2017).
@riannuzziGPC

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