Il ‘generale’ non c’è più e le strade di Sarajevo da ieri sera saranno più malinconiche e meno sicure; specie quelle di Baščaršija, il quartiere musulmano della città multiculturale ed interetnica per antonomasia (almeno fino all’assedio serbo iniziato nel 1992) dove Jovan Divjak abitava. Il capo dell’esercito jugoslavo, vero mito per sarajevesi e bosniaci, è morto a 84 anni, stroncato da una grave malattia. La sua scelta, nel lontano 1992, di restare alla guida del Jna, l’esercito jugoslavo, o almeno ciò che ne restava, a difesa della capitale bosniaca lo ha trasformato in autentico eroe.

Di origini serbe, amato e rispettato dai bosniaci, Divjak è stato sempre considerato un traditore dai serbi e dai serbi di Bosnia, quanto meno i più accaniti nazionalisti, proprio per il suo ruolo di difensore della città durante l’infinito assedio iniziato proprio in questi giorni di 29 anni fa. Per più di tre anni Sarajevo è finita sotto il fuoco dell’artiglieria di Belgrado e di Pale (la cittadina dove Radovan Karadzic aveva fissato il parlamento-farsa della Republika Srpska) che ha ucciso oltre 12mila persone.

Le immagini drammatiche di gente comune freddata dagli sniper, i cecchini serbi, l’inferno delle bombe su Markale, il mercato nel cuore di Sarajevo, hanno indignato il mondo. Jovan Divjak, prima della radicale deriva nazionalista bosniaca, ha difeso la città e questo la gente non lo ha mai dimenticato. ‘Cika Jovo’, ‘Zio Jovan’, così lo hanno sempre chiamato gli abitanti di Sarajevo. “Passeggiare con lui nel centro della città era impossibile: ‘Cika Jovo come va?’, ‘Cika Jovo, tanta salute’, la gente semplicemente lo amava, lo fermava, gli stringeva la mano, gli offriva da bere perché era un personaggio importante e amato da tutti; lui si schermiva e sorrideva a tutti perché era una persona molto umile che non voleva far pesare il suo ruolo. Per i bosniaci era popolare come lo era stato Tito per gli jugoslavi, era un personaggio di spicco, dava sicurezza”.

Azra Nuhefendic, giornalista e scrittrice bosniaca, figlia di musulmani partigiani, vive a Trieste dal 1995, proprio dalla fine del conflitto in Bosnia: “Attenzione, quella che hanno combattuto persone valorose come il comandante Divjak era una guerra di aggressione serba a tutti gli effetti – precisa la Nuhefendic -. Ai negazionisti serbi fa comodo farla passare come ‘conflitto o guerra civile’. Per questo Divjak è rimasto a difesa della città, perché il giusto era da quella parte, nonostante le sue origini serbe. Lui ha fatto tanto per Sarajevo e questo la gente non la ha mai dimenticato. Sarajevo e la Bosnia senza il generale Divjak saranno posti peggiori e meno sicuri, con una speranza in meno di riportarli ai tempi precedenti alla guerra, quando non si faceva distinzione tra etnie. Ci sarà più povertà economica e intellettuale, meno tolleranza e meno educazione per i bambini ed i giovani a cui Divjak teneva di più”.

Il sogno di Jovan Divjak era quello di fare il pedagogo; le faccende della vita lo hanno poi obbligato a scegliere la carriera militare che dal 1969, quando è entrato nell’Accademia come cadetto, al 1991 lo hanno visto impegnato nel Jna (Jugoslovenska narodna armija, l’Armata popolare jugoslava) su diversi fronti. La guerra di Bosnia ha prodotto, tra gli altri danni, migliaia di bambini orfani di guerra e lui su questo ha lavorato e agito per il resto della sua vita, dal 1994 ad oggi.

Proprio in quell’anno ha fondato l’associazione Ogbh (Obrazovanje Gradi Bosnia Herzegovina, L’educazione costruisce la Bosnia) per accogliere i più giovani rimasti senza famiglia, allargando poi l’aiuto ai bambini poveri, ai rom e così via. Tantissimi gruppi di studenti accolti, anche dall’Italia, per incontri durante i quali il comandante Divjak raccontava alle giovani generazioni cosa è successo in quegli anni bui a Sarajevo e nel resto della Bosnia, martoriata e divisa dalle violenze e dalle mire espansionistiche di Belgrado e Zagabria.

Per fortuna Divjak ha seminato bene in questi anni e adesso un gruppo di persone porterà avanti il lavoro dell’associazione seguendo un percorso tracciato. Oltre alla carriera nell’esercito e alla sua predisposizione per la sfera pedagogica, Jovan Divjak è stato un uomo di cultura, un intellettuale: “Era appassionato di teatro, di balletto, di poesia. Jovan Divjak è stato un attore (ha recitato nel film Venuto di Sergio Castellitto tratto dal romanzo di Margaret Mazzantini, e in tanti documentari sul tema, ndr), un abile sceneggiatore, insomma era un personaggio eclettico, un visionario a suo modo. C’è un dettaglio che lo descrive bene: il balcone fiorito della sua casa, inconfondibile e conosciuto da tutti”.

A ricordare questo spaccato di vita dell’eroe di Sarajevo è Luca Leone, scrittore ed editore esperto di Balcani. Si deve a lui, nel 2007, la pubblicazione in lingua italiana del libro scritto da Divjak ‘Sarajevo mon amour’ per Infinito Edizioni: “È uno dei titoli di punta della nostra casa editrice – aggiunge Leone, autore di una dozzina di testi dedicati alla Bosnia -. Di recente ha anche scritto un testo bellissimo a prefazione di un mio libro dedicato agli accordi di Dayton. Dopo averne sentito tanto parlare, ad inizio di terzo millennio ho avuto la fortuna di conoscerlo di persona. Lui andava di fretta, lo attendevano alla nostra ambasciata a Sarajevo per la cerimonia del 2 giugno; ci fermammo a parlare e andammo avanti per quasi due ore e infatti a quell’appuntamento diplomatico arrivò in forte ritardo. La nostra fu una folgorazione, da quel momento gli incontri aumentarono per arrivare poi alla pubblicazione del suo libro con noi per il mercato italiano. Grazie ad una traduttrice, io e Divjak riuscivamo a superare l’ostacolo della lingua: lui parlava un ottimo francese, io altre lingue e il serbo-croato mi sono sempre rifiutato di impararlo. Ricordo incontri davanti ad una bottiglia di Rakija (un superalcolico simile al brandy e alla vodka, ndr) al mattino, la sua simpatia e una dolcezza unica. Insomma, un uomo straordinario di cui si sentirà sempre di più la mancanza in un Paese corrotto e corroso dai nazionalismi. Lei pensi che sul fronte Covid i primi vaccini in Bosnia sono arrivati non più di due settimane fa. Mentre la Serbia diventa l’esempio d’Europa per la campagna vaccinale, in Bosnia sono arrivate meno di 100mila dosi e la maggior parte grazie a donazioni. Gli effetti a lungo termine della guerra sono sempre più dannosi”.

Il 3 marzo 2011 Jovan Divjak è stato arrestato a Vienna su mandato della Serbia per presunti crimini di guerra avvenuti durante la guerra di Bosnia. Il tribunale austriaco ha negato l’estradizione a Belgrado per mancanza di prove e perché un processo in Serbia non sarebbe stato equo. Divjak aveva perso l’amata moglie Vera nel 2017 e lascia due figli: uno vive negli Stati Uniti, l’altro a Londra.

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