Alfonsina Strada cadde fulminata da sincope (in realtà era un infarto, ndr) mentre cercava di avviare la sua pesante moto dopo aver assistito alla Tre Valli Varesine”. Così scriveva La Stampa il 14 settembre 1959. Questa la fine di una vita iniziata il 16 marzo 1891, 130 anni fa. “La sua è una storia erculea, un simbolo di conquista e di libertà”, racconta lo scrittore per ragazzi Tommaso Percivale che ha dedicato il libro Più veloce del vento (Einaudi ragazzi) alla prima e unica donna a partecipare al Giro d’Italia: Alfonsina Strada, appunto.

Nata a Castelfranco Emilia (Modena) da due braccianti analfabeti, è la seconda di dieci fratelli. E proprio “tenendo in collo i bambini che nascevano di anno in anno” – scriveva La Stampa citando la stessa Strada – diventa una donna “di costituzione fortissima”. A 10 anni, scopre la sua passione. Racconta Percivale: “Il padre compra una bicicletta molto vecchia e arrugginita dal dottore in cambio di qualche lavoretto nel suo giardino”. Ma non può darla alla figlia durante il giorno perché la usa per andare nei campi. Per questo Alfosina “la ruba per allenarsi di notte”. Il padre non vuole però che le donne vadano in bicicletta anche perché “sui giornali si scriveva che la sella era nociva per la loro salute”, spiega lo scrittore classe 1977. Allora “appende la bici nella stalla così che lei non ci arrivi”.

Il primo uomo a capirla nel profondo è Luigi Strada, il suo primo marito (rimasta vedova, sposerà il ciclista emiliano Carlo Messori). “È un genio sia dal punto di vista tecnico-meccanico che dal punto di vista artistico. Lavora come cesellatore ma anche come inventore. Ha brevettato una macchina per il caffè espresso ma non è riuscito a monetizzarla”, racconta Percivale. Strada sostiene la moglie nella sua passione, ma poi “il suo carattere fragile ha la peggio e cade in depressione”. È anche per mantenerlo nel manicomio che Alfonsina decide di iscriversi al Giro d’Italia del 1924 dopo aver partecipato a due Giri di Lombardia.

Il direttore e l’amministratore della Gazzetta dello Sport acconsentono alla sua richiesta. E proprio il giornale sportivo milanese la descrive così: “Nel gruppo c’è anche una vispa donnina, coi capelli tagliati alla bébé e i calzoncini corti, da cui scendono con impertinenza i lembi della camicia. Pedala con disinvoltura e allegria, tal quale un ragazzino che abbia marinata la scuola”. La ciclista taglia il traguardo in ogni tappa anche se la maggior parte delle volte con alcune ore di ritardo. È la stessa Morini, questo il suo nome da nubile, a raccontare dopo la penultima tappa (con arrivo a Fiume) al Guerin Sportivo: “I pubblici di tutta Italia (specie le donne e le madri) mi trattano con entusiasmo”.

Il successo le permette di pagare le rate del manicomio del marito e il collegio dove studia una nipote (“non ha mai avuto figli”, diversamente da quanto scritto su Wikipedia, racconta Percivale). E la necessità economica è uno dei motori della sua bicicletta, come racconta rispondendo all’intervistatore del Guerin: “Sono una donna, è vero. E può darsi che non sia molto estetica e graziosa una donna che corre in bicicletta. Vede come sono ridotta? Non sono mai stata bella, ora sono… un mostro. Ma che dovevo fare? La puttana?”. Emerge così tutta la sua voglia di ribellarsi: “Ha una rabbia incanalata in modo costruttivo. Non si è lasciata andare soffrendo per l’incapacità del mondo di accettare quello che lei voleva essere”, spiega Percivale. Una rottura a cui non ha mai voluto dare una patina politica: “Voleva ‘semplicemente’ diventare una star dello sport per realizzare il suo sogno da bambina”.

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