Il 12 marzo 1921 nasceva Gianni Agnelli, il futuro “avvocato”, per intenderci. Un grande italiano non privo di virtù civili. Non un imprenditore, né un santo, ma una personalità complessa di capitalista, segnato più da una straordinaria responsabilità verso la sua numerosa famiglia, che nei confronti del proprio Paese. A cavallo tra la Fiat e il jet set, diede il meglio di sé grazie all’abilità di Gianluigi Gabetti, allorché blindò il patrimonio di famiglia, con l’istituzione prima di Ifil e poi di Exxor, impedendo dannose dispersioni, al prezzo di una ripartizione, in parte violenta, ma generosa.

Nipote del fondatore, il senatore Giovanni, secondo (di sette) figli dello sfortunato Edoardo, tragicamente morto (1935) in fase di ammaraggio a bordo dell’idrovolante pilotato dal grande trasvolatore, Arturo Ferrarin detto il Moro. Ma, soprattutto, figlio di quella Virginia Bourbon del Monte, nobildonna ed ereditiera di fortune americane per parte di madre, donna di straordinaria sensibilità artistica, legata da lunga e contrastata passione con lo scrittore Curzio Malaparte, morta tragicamente nel primissimo dopoguerra in un incidente automobilistico difficilmente spiegabile, madre che con la propria dolorosa e turbolenta esistenza segnò il carattere del figlio, primo tra i discendenti maschi.

Oggi lo ricordiamo non solo per la ricorrenza centenaria, ma per assegnargli finalmente un posto nella storia italiana che né la stampa o l’editoria amiche, né i pochissimi detrattori gli attribuirono, in un recente passato in cui pareva che ogni gesto del senatore a vita dovesse essere oggetto di fiumi di inchiostro. Di questi giorni anzi è la strana impressione che – non solo per ritrosia sabauda – nemmeno la Fiat intenda ricordare veramente il nipote del Fondatore, per non parlare di quella parte cospicua del potere italiano, una volta sempre attento allo stormir di fronde dell’Avvocato, e che oggi forse tenderebbe a rimuoverlo.

David Landes, il grande storico dell’economia di Harvard recentemente scomparso, scrisse che “la Fiat non è una ditta a conduzione famigliare uguale a tutte le altre, è l’incarnazione stessa del capitalismo italiano del Novecento”. Agnelli incarnò il capitalista italiano familista tipico, quello che la Fiat riproduceva a livello di azienda. Non fu un capitalista puro, alla Buffet per intenderci, ancor meno fu un vero imprenditore, come Adriano Olivetti, mancandogli una visione strategica di fondo e ogni traccia di furore innovatore.

Uomo di contraddizioni irrisolte, con l’allure, l’intelligenza, la vivacità di un banchiere cosmopolita e libertino, l’eleganza e il cerimoniale di un signorone alla Barry Lindon, non ambì rivoluzionare la produzione automobilistica italiana, ma si contentò di produrre automobili, per nulla chic, per nulla eleganti, per nulla prestigiose. E forse si spiega perché già il rozzo, ma concreto Vittorio Valletta, uomo di fiducia del fondatore, fin dagli inizi degli anni Sessanta avesse spinto per una Fiat senza responsabilità dirette per i discendenti Agnelli, al punto che andandosene per limiti di età, avrebbe voluto alla guida dell’azienda un manager come Gaudenzio Bono, un fedele continuatore della Fiat modello anni 50, oltre che del principio della separazione tra gestione e proprietà.

Il suo senso della responsabilità sociale d’impresa si limitò all’assunto, per cui “l’interesse della Fiat, è l’interesse dell’Italia”. In realtà fece di necessità virtù e intesse pesanti, ininterrotti rapporti di utilità reciproca non sempre confessabili con la politica e il territorio, con i partiti, la stampa e ogni centro di potere, alla ricerca di una libertà operativa altrimenti impossibile. Insomma, né la società né il mercato lo interessavano più di tanto. Nella conduzione della Fiat, pur a tratti aprendosi alle necessità sindacali, in genere perseguite solo all’interno di rapporti di forza non sempre fair, non seguì né volle elaborare un modello collettivo di sviluppo sociale: non si preoccupò dei salari e delle condizioni dei lavoratori fintanto che esse non esplosero in proteste e scioperi perfino violenti, ma favorì l’introduzione della scala mobile; ristrutturò l’azienda più per necessità che per piacere, investì finché poté, ma l’innovazione non fu certo il suo obiettivo principale. Scelse i suoi compagni di viaggio a seconda delle destinazioni, indifferente secondo le convenienze, si chiamassero Pesenti o Cuccia, Gheddafi o Moggi. Così non evitò alla Fiat l’onta di Tangentopoli.

Poco propenso agli investimenti, molto più attento alla retribuzione degli azionisti, rifiutò sempre la macelleria sociale non per intima convinzione, ma sapendo e accettando il fatto che in Italia è molto difficile fare impresa senza il filtro e il consenso della politica. Indifferente in apparenza al trionfo come al disastro, illuminato da un cinismo di fondo, da un relativismo che alla fine lo rese così celebre, perfino simpatico all’autolesionismo italiano, condusse la Fiat al baratro di un fallimento de facto che avrebbe travolto qualsiasi altra azienda, sommersa da una montagna di debiti superiore al patrimonio. Poi arrivò Sergio Marchionne.

Nella scelta dei collaboratori, dei manager, inclinò per uomini di assoluta obbedienza con la faccia dura all’esterno e la schiena tenera all’interno, alla Cesare Romiti. Di volta in volta escluse quanti (Carlo De Benedetti, Vittorio Ghidella) potevano apparire legati ad astratti modelli imprenditoriali di profitto e di efficienza, dimentichi che l’interesse della famiglia poteva (e in molti casi doveva) risultare separato dalle fortune aziendali.

Amò l’arte, in particolar modo quella contemporanea; le donne, le Cristine, le Heidi, le Pamele, le Anite, le Jacqueline, le Dalila, meglio se inespugnabili e non banali. Cercò il brivido, la velocità, l’imprevisto, ma espresse queste doti, queste aspirazioni fuori dal mondo della sua impresa, in una schizofrenia borghese che egli stesso detestava e che l’informazione fece l’impossibile per occultare. L’educazione sabauda gli impedì di conciliare mandevillianamente vizio e virtù, di alimentare quest’ultima con la forza costruttiva del primo. In cuor suo si sforzò certamente di perseguire anche il bene, ma finì soverchiato da un cinismo relativista e opportunista che “nol consente”.

Non trascinò certamente l’Italia verso il progresso, ma fu sicuramente migliore della gran parte dei maggiori imprenditori italiani e alla fine con la sua azione e il suo esempio sostenne il magro sviluppo, civile, economico e culturale dell’Italia. Pochi lo amarono veramente, troppi lo ammirarono. Noi lo ricorderemo, con tutti i suoi difetti e i suoi pregi, protagonista indiscusso della storia italiana del XX secolo.

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