Davanti alla morte, come ci ha insegnato Totò, ogni differenza scompare. Anche l’uomo più potente d’Italia – e certamente Cesare Romiti era tra quelli – diventa come gli altri. La morte, in realtà, ci restituisce la vera luce delle cose, quella che le fregnacce del nostro vivere cercano di nascondere. Tutti uguali da morti, perché ridotti alle sole cose che contano, che non sono il successo, le cerimonie e le funzioni pubbliche e private. Tutti uguali, ma non per questo dimentichi di ciò che è stato. Non costretti alla laudatio ad ogni costo.

Banale dire che certamente l’unico vero Giudizio non spetta agli uomini, quindi superfluo perpetuare le menzogne terrene. I grandi, tra l’altro, se mai accadrà, non andranno certo in Paradiso per le belle parole dei loro necrologisti, meglio un giudizio quanto più sereno, sine ira et studio, come si diceva.

Cesare Romiti è stato senz’altro un grande del nostro tempo. Nel senso che era uomo fisicamente imponente, di forti sentimenti, di grande potere. Ha vissuto periodi difficili. Ha contato molto per la storia italiana tra gli anni 70 e la metà degli anni 90. Ha fatto del bene, ha fatto anche del male all’Italia e agli italiani. Ha lavorato duramente per la famiglia Agnelli e per la Fiat. Si è arricchito per sé e per la propria famiglia, come a pochi è stato dato di poter fare (lo dico, perché ad altri non capitò lo stesso destino, ad esempio a Enrico Cuccia, che pure in quanto a potere…).

Cesare Romiti ha rappresentato la contraddittorietà dell’Italia, il Diavolo e l’acqua santa, il bello e il brutto di questo paese, ciò che non manchiamo di continuare a esprimere in perfetta sintonia. Era uomo di finanza con speciali attitudini al dialogo con la politica, mai e poi mai un ingegnere di fabbrica, per di più automobili. Volle e seppe assecondare, attutire e amplificare i limiti, i pregi e le debolezze del suo Principale, quell’avvocato Gianni Agnelli, così attento alle questioni estetiche, così dandy, ma così spietato, da sembrare talvolta noncurante della sostanza brutta e cattiva, del grasso da macchina e delle mani sporche, che la proprietà del più grande gruppo privato industriale italiano comportano, per tutti.

Ha trasformato la Fiat che era di Vittorio Valletta in un gruppo industriale diversificato. Aveva trovato una grandissima azienda, che aveva successo all’estero, controllava il mercato italiano e poteva guardare dall’alto in basso molti dei suoi concorrenti internazionali, che aveva fatto straordinari profitti, ma che ora doveva essere ristrutturata. Scegliendo la strada del viaggiare a braccetto con la politica non vinse la sfida con il mercato, ma seppe vincere quella con la situazione politica ed economica tutta italiana. Tenne a bada i partiti, sconfisse il terrorismo che minacciava dall’interno le fabbriche del paese. Forse cercò di restituire efficienza e produttività alla Fiat, ma soprattutto combatté la paura di esserne travolto, le tensioni internazionali, le lotte politiche, i conflitti sociali. Primum vivere deinde philosophari, si illuse (insieme con il suo Principale) di poter superare i problemi, annacquando la produzione di automobili, cercando di fare profitti in settori del tutto nuovi per la Fiat.

Lottò per il potere all’interno della Fiat e in questo vinse, riuscendo a presentare certe discutibilissime scelte come gli interessi della Fiat, chiudendo la strada ai suoi potenziali concorrenti interni, Carlo De Benedetti, Vittorio Ghidella. Certo non aveva una concezione del potere da boy scout, ricordava molto di più la politica che frequentava, il tardo impero. Considerava fisiologico al sistema imprenditoriale italiano la mancanza della leale concorrenza, e quindi senza colpo ferire si adoperò per cancellare ogni altra realtà industriale italiana nel settore automobilistico. Sfortunatamente al momento del suo abbandono per motivi di età, la Fiat sarà un’azienda praticamente fallita, con un indebitamento superiore di gran lunga al patrimonio netto, pochi modelli, nessuna prospettiva di alleanze internazionali e quote di mercato in irreversibile calo. Di sicuro furono anni terribili per la Fiat e solo un mago come Marchionne riuscirà a scongiurare il naufragio dell’intera baracca.

La vicenda professionale di Cesare Romiti è la storia di un uomo, troppo uomo, troppo italiano. Una storia così atipica e singolare da non poter essere nemmeno considerata esemplare del capitalismo italiano. È stato Sergio Marchionne a certificare, nero su bianco, tutti i limiti dell’epoca Agnelli-Romiti, con le sue denunce del provincialismo della Fiat, dei sindacati e in definitiva di quell’Italia, che l’ad proveniente dalla Snia non aveva cambiato di uno iota. Ora che se ne è andato ci inchiniamo all’uomo. La gloria umana è troppo labile.

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