Mario Jardel se ne sta fermo sul prato verde dello stadio Del Conero. Il torace avvolto nella sua nuova maglia biancorossa, la faccia stirata in un sorriso nervoso. I fotografi gli si avvicinano uno dopo l’altro fino a creare un mucchietto di corpi colorati da un fratino giallo. Sono tutti lì per lui. Perché nessuno vuole perdersi quel momento che ha il sapore di appuntamento con la storia. Perché in quel freddo pomeriggio del 18 gennaio del 2004 Mario Jardel non è più l’attaccante che in sei mesi al Bolton non era riuscito a segnare neanche un gol. Ora è l’uomo che avrebbe salvato un Ancona alle prese con una classifica drammatica. In 18 giornate i biancorossi hanno raccolto appena 4 punti. E hanno segnato la miseria di 7 gol. La permanenza in A è un miraggio per tutti, tranne che per Ermanno Pieroni.

Il presidente pensa che con qualche colpo la salvezza sia ancora possibile. Solo che si fa prendere un po’ la mano. “Se possibile la squadra la cambio tutta o quasi – spiega alla Gazzetta – Però stavolta le scelte le faccio io”. È un manifesto programmatico che lo porterà a stravolgere la sua creatura. E anche a togliersi uno sfizio. Pieroni infatti decide di portare ad Ancona uno degli attaccanti più letali del millennio. Peccato si tratti di quello passato. Jardel era riuscito a vincere due volte la Scarpa d’oro. Prima con il Porto (38 reti in campionato nell’annata 1999/2000) e poi con lo Sporting Lisbona (42 reti nel 2001/2002). Solo che l’attaccante era imploso lì. Si diceva che non aveva retto alla mancata convocazione per i Mondiali del 2002 e alla contemporanea separazione dalla moglie. La sofferenza aveva minato il suo carattere, aveva declassato un cannoniere eccezionale al rango di vuoto simulacro. I suoi sei mesi al Bolton sembrano avvalorare quell’ipotesi.

Poi arriva l’Ancona. E gli affida il ruolo di salvatore della patria. La Gazzetta si lascia andare e titola: “Ancona meravigliao: pure Jardel”. Ma si tratta di un eccesso di entusiasmo. Perché è solo l’unione di due disperazioni, un matrimonio senza frutti che viene celebrato nell’incredulità collettiva in quel freddo pomeriggio di gennaio. E senza la solita frasetta: “Chi ha qualcosa in contrario parli ora o taccia per sempre”. Perché i tifosi avevano già sollevato più di un dubbio. D’altra parte basta guardarlo sul prato verde del Del Conero per restare perplessi. Quella fra Ancona e Perugia è una partita che mette in palio punti pesanti in chiave salvezza. Ma è anche la partita della sua presentazione al pubblico, il giorno in cui i tifosi possono scartare il regalo del loro presidente. Così Jardel si sforza di sorridere. Anche se la maglia biancorossa gli calza un po’ stretta. Perché il tessuto sintetico non riesce a nascondere quel filo di pancia. Lui dice di aver perso una decina di chili in tre settimane. Ma tutti pensano che non sia abbastanza. Mentre migliaia di punti interrogativi si materializzano sulla testa dei tifosi marchigiani, Jardel stoppa un pallone e inizia a palleggiare. Destro, sinistro, destro, sinistro, destro. Fino a quando non prova a farla rimbalzare con il tacco. La palla vola all’indietro, poi quando prova il secondo tocco con il retro della scarpa schizza addirittura via. Lui fa finta di niente. Sorride, guarda i fotografi. Poi si mette a salutare i tifosi biancorossi. Solo che sbaglia sfumatura. E si ritrova a fare ciao ciao con la mano a quelli del Perugia.

Il tempo è finito. Resta solo un ultimo rito da compiere: la foto con la mascotte ufficiale dell’Ancona. Jardel abbraccia quello strano peluche animato e sorride di nuovo. Ci si vede sei giorni più tardi a San Siro. E allora sarà il campo a parlare. Nel frattempo i giornali si concentrano tutti sullo stesso particolare: il suo adipe. Il Corriere dedica una pagina a Dado Preso, l’attaccante del Monaco che pesava cento chili e che è riuscito a dimagrire a 29 anni. Jardel finisce in una tasca in alto, vicino a Ronaldo. E viene citato solo per i suoi problemi di peso. Sette giorni passano in fretta. Nella conferenza stampa prepartita Ancelotti dice di essere preoccupato dall’arrivo di Jardel, pensa che l’attaccante possa destarsi all’improvviso dal torpore che lo ha inghiottito. Non sarà così. Il Milan vince 5-0. Jardel è poco più di un ectoplasma. Il giorno dopo tutti i commenti sono tutti per la sua stazza. Il Corriere racconta di un attaccante con la pancia da “cumenda”. Repubblica di un brasiliano “pingue e che, a dispetto della faticosa deambulazione, è stato confortato nel primo tempo dal gran correre dei premurosi compagni”. Solo Gianni Mura preferisce non infierire: “Su Jardel un velo di silenzio per rispetto a quello che è stato”. L’attaccante gioca solo tre partite. Poi, a marzo, cala il sipario: l’Ancona decide di rescindere il suo contratto.

Ma il mercato di gennaio è terreno più che fertile per colpi improbabili. Perché con le casse societarie vuote serve lavorare con la fantasia. E niente è più fragile di una suggestione. Nel 2009, ad esempio, la Sampdoria acquista Fabio Zamblera dal Newcastle. E sul proprio sito annuncia il colpo con una nota piuttosto pomposa dal titolo “Nasce la grande Samp del domani”. L’attaccante si presenta dicendo: “Da Owen ho imparato l’umiltà, devo dire che l’esperienza inglese mi ha fatto crescere molto”, ma non riuscirà mai a mettere in discussione Marilungo, figuriamoci Pazzini. Due anni più tardi la Sampdoria ci riprova. E pesca ancora in Inghilterra. Stavolta a sbarcare a Genova è Federico Macheda, l’attaccante che nel 2009, a 17 anni, era diventato famoso per aver segnato allo scadere il gol vittoria contro l’Aston Villa. Prima di spedirlo in Italia Ferguson gli dice: “Mi raccomando, se hai bisogno fatti sentire e torna a Manchester più forte”. Con la Samp, però, Macheda segnerà solo un gol. In Coppa Italia. E a fine campionato torna in Inghilterra per poi iniziare il suo personalissimo giro del mondo. Ma la Samp è particolarmente attiva quando si parla di flop di gennaio. Nel 2015 ecco che Ferrero “regala” ai suoi tifosi Samuel Eto’o. L’ex interista si presenta dicendo che il presidente “è uno che sogna” e di voler fantasticare insieme a lui. Ma, soprattutto, paragonando “Papà Moratti a Gesù Cristo“. In campo segna 2 gol in 18 partite prima di andare in Turchia. Nel 2010, invece, il Milan acquista dall’Inter Amantino Mancini. Solo che il brasiliano è ai margini da troppo tempo. Galliani urla al grande colpo. Berlusconi gli urla contro e basta. “È un acquisto che non ho capito e l’ho detto anche a Galliani – tuona il Cavaliere – il brasiliano è fermo da due anni ed è un altro trequartista, a noi serviva uno che fa gol, che finalizza il gioco”. Così dopo appena qualche spezzone Mancini verrà rispedito al mittente. Sempre meglio di quanto successo a Ibson. Nel gennaio 2014 il Bologna lo acquista per sostituire Diamanti. Il brasiliano sbarca in Italia, ma nessun dirigente rossoblù si ricorda di andarlo a prendere in aeroporto. Una storia nata male e finita dopo appena 11 spezzoni di partita.

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