Le torture psicologiche a volte possono lasciare solchi più profondi e dolorosi di quelle fisiche. Nel dubbio, Ibrahim Ezz el-Din, ricercatore e ingegnere egiziano di 27 anni, le ha provate entrambe. Dopo essere scomparso per 167 giorni dal suo arresto, avvenuto in strada nel giugno del 2019, aver subito soprusi e torture e conosciuto la durezza del carcere, ora l’ultima violenza, durissima. Nel giorno dell’atteso rilascio, la Procura suprema del Cairo ha ribaltato la decisione della Corte Penale della capitale che a fine dicembre aveva ordinato la scarcerazione. Di fatto, non si può parlare di un ribaltamento della sentenza esecutiva, quanto di un aggiramento del regolamento legislativo.

Ormai tutti sanno come funzionano le cose nel Paese dei Faraoni. In vista della scadenza del secondo anno di detenzione senza processo, per evitare di rispettare la legge e dunque rilasciare il detenuto, la National Security ha presentato una nuova accusa. Gli addebiti nei confronti di Ezz el-Din sono i soliti: essersi unito ad un gruppo terroristico e aver diffuso notizie false in grado di minacciare la sicurezza del Paese. Il caso giudiziario è il 1.018 del 2020, un fascicolo aperto nei confronti di oltre 400 imputati in larga maggioranza rei di aver preso parte alle manifestazioni di protesta del settembre 2019 o di aver ordito contro lo Stato nei mesi a seguire.

Parlando di Ezz el-Din, i dettagli sono importanti. All’epoca delle proteste lui si trovava già in detenzione da oltre tre mesi, anzi risultava ancora scomparso (di lui le prime tracce sono emerse soltanto a fine novembre dello stesso anno, dal carcere di Tora). Come può l’ingegnere della ong Ecrf aver tramato contro lo Stato e svolto attività terroristiche? Semplice: secondo la Procura Ezz el-Din lo ha fatto dall’interno della prigione, trasmettendo messaggi e ordini attraverso i suoi familiari e i suoi avvocati. Ma tra la sparizione forzata e prolungata, il regime di isolamento e i vincoli provocati dall’emergenza pandemica da Covid-19, le persone vicine ad Ezz el-Din hanno avuto la possibilità di vedere e parlare con lui in pochissime occasioni, due o tre al massimo e per una manciata di minuti.

Va ricordato che i legali di Ibrahim Ezz el-Din hanno presentato una denuncia per torture, minacce e violenze perpetrate nei suoi confronti nei mesi della sparizione forzata e successivamente in cella. Forse è stato questo atto-denuncia ad far muovere la Sicurezza nazionale.

Dura la reazione dell’organizzazione del Cairo che segue sia il suo caso che quello di Giulio Regeni: “Con il loro comportamento le autorità egiziane continuano a prendere di mira i nostri lavoratori e collaboratori. Condanniamo fermamente la decisione presa a cinque giorni dall’ordine di rilascio emesso dalla Corte Penale del Cairo nei confronti di Ibrahim Ezz el-Din e la sua imputazione legata ad un nuovo caso – scrive in una nota ufficiale il direttivo dell’Ecrf – Il Tribunale lo aveva liberato ordinando un regime di libertà condizionata. La decisione delle autorità giudiziarie egiziane è l’ennesimo esempio del sistema punitivo messo in atto verso tutti i difensori dei diritti umani, nonostante i tanti appelli arrivati dall’interno e da tutto il mondo. Ibrahim è stato torturato, affamato, minacciato di morte durante la sua scomparsa e poi arrestato arbitrariamente. Su di lui non esistono prove o indizi che lo possano collegare ad una qualsiasi indagine per terrorismo. Gli inquirenti hanno istruito il capo d’imputazione in appena 15 giorni basandosi su un rapporto della Sicurezza Nazionale senza che gli avvocati del nostro collaboratore abbiano preso visione dei documenti d’indagine. L’Nsa ormai è diventata una partner del regime per aggirare le decisioni della magistratura”.

Il 28 dicembre il giovane professionista è stato trasferito dal carcere di Tora, al Cairo, nella stazione di polizia di Samanoud, Governatorato di Gharbiya (100 chilometri a nord della capitale). Per la legge egiziana, prima del rilascio servono le ultime valutazioni burocratiche e questo lasso di tempo il detenuto in attesa di scarcerazione lo trascorre nella città di origine, riportata sul documento d’identità. Il peggio sembrava davvero alle spalle e ieri si aspettava soltanto il via libera per consentire al 27enne di tornare alla sua vita dopo quasi un anno e mezzo tra sparizione e detenzione. Invece dell’atteso segnale, la Sicurezza Nazionale ha costruito il nuovo capo di imputazione, ordinando l’immediata carcerazione, con tanto di ritorno nella famigerata prigione nella periferia sud del Cairo. L’ennesimo giro di giostra verso l’inferno. Una sorta di brutale gioco dell’oca in cui l’imputato torna alla casella iniziale per riaffrontare un lungo percorso detentivo.

Non è la prima volta che accade una cosa del genere in Egitto. La stessa sorte è toccata di recente ad Ibrahim Metwaly Hegazy, membro dell’Ecrf (la Commissione egiziana per i diritti e le libertà) e uno degli avvocati del caso Regeni, ormai in prigione da due anni e mezzo. Nei suoi confronti i nuovi casi istruiti sono stati addirittura due. Come Metwaly, anche Ezz el-Din faceva parte dell’organizzazione che cura gli interessi della famiglia del ricercatore di Fiumicello rapito e ucciso al Cairo tra la fine di gennaio e l’inizio di febbraio del 2016. Diverso il ruolo svolti in seno alla ong. Pochi giorni prima del suo arresto, avvenuto l’11 giugno del 2019, l’apprezzato urbanista aveva partecipato a un dibattito televisivo il cui argomento centrale era la New Capital, la nuova città-satellite che il regime egiziano sta realizzando ad una cinquantina di chilometri a sud-est del centro del Cairo (proprio oggi sono stati assegnati i primi alloggi dorati della nuova capitale amministrativa egiziana che dovrebbe essere inaugurata entro l’estate 2021). Durante il confronto Ezz el-Din criticò fortemente la scelta di realizzare quel mega-progetto faraonico riservato alle élite. Considerazioni che non sfuggirono al regime di Abdel Fattah al-Sisi. Pochi giorni dopo quell’apparizione televisiva, Ezz el-Din è stato letteralmente rapito in strada mentre stava tornando nella sua casa al Cairo e di lui si sono perse le tracce per cinque mesi e mezzo. Di fatto è entrato nel fascicolo del caso numero 488 del 2019, risolto con il rilascio, ma vanificato dalla nuova accusa.

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