1. Le partite senza pubblico, una cosa devastante

Ormai non ce lo ricordiamo più, un po’ perché ci abbiamo fatto l’abitudine, un po’ perché è stata presa qualche contromisura. D’altronde, si sa, ci si abitua a tutto. Ma all’inizio, alla ripresa tardoprimaverile di campionato e coppe, la cosa era devastante. Quegli spalti vuoti, quel silenzio irreale facevano sì che un match decisivo per lo scudetto o un quarto di finale di Champions sembrasse una partitella di allenamento. I calciatori quando segnavano un gol non esultavano più né si abbracciavano e non per mantenere il distanziamento sociale, ma perché sembrava non gli importasse più di tanto di quel che facevano in campo, come fossero lì per dovere, per timbrare un cartellino, per recitare una parte davanti alle telecamere. Potevi anche citare Borges che con le sue inchieste di Bustos Domecq aveva previsto tutto, ma non serviva a mitigare la delusione.

Ora è tornata un po’ di passione, c’è più autenticità nei comportamenti agonistici e le voci delle panchine amplificate dai microfoni sostituiscono i boati dei tifosi. Ma il ricordo di quei momenti in cui era evidente che si giocava unicamente per onorare i contratti televisivi è di una tristezza incancellabile.

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