Lo racconta Alessandro Barbero in una delle sue gustose lezioni in giro per festival che Marc Bloch, il grande storico francese delle Annales morto tragicamente nel 1944, in una lettera a Lucien Fevbre del 1935 gli scriveva di starsi appassionando molto alla storia sociale dell’alimentazione. Bloch raccontava all’amico e collega che la storia delle marmellate – non le confitures di lusso, ma la marmellata della nonna, quella fatta in casa e consumata prevalentemente durante l’inverno – poneva questioni storiche di un certo rilievo. Infatti la marmellata viene fatta con lo zucchero, ma lo zucchero è sempre stato a buon mercato? No, perché prima dell’estrazione dalla barbabietola, lo zucchero era un prodotto di lusso e d’importazione, derivato dalla canna, dunque non era alla portata di tutti. La marmellata fatta in casa, che sembrerebbe un cibo fatto da sempre dalle nonne, invece aveva un’origine recente, ottocentesca, e legata a questioni strettamente economiche. Dunque marmellata ‘della nonna’, ma non ‘della trisavola’, diceva Bloch negli anni 30.

Se ci rivolgessimo ai testi di un antropologo cubano come Fernando Ortiz, essi ci spiegherebbero che la canna da zucchero richiedeva investimenti anche perché occorreva molta forza lavoro, ovvero l’acquisto di “quegli spettacolari automotori detti ‘schiavi’”. Un zuccherificio, racconta Ortiz parlando della sua Cuba nel Contrapunteo cubano del tabaco y el azucar, richiedeva dagli 80 ai 120 schiavi costantemente impiegati. Lo zucchero era schiavistico e capitalistico, e i latifondisti facevano la bella vita all’Avana.

Ma torniamo a Bloch, o meglio alla riflessione che, in questi giorni, ha richiamato alla mente quell’episodio. La cosa mi è venuta in mente quando ho ricevuto il famoso ‘pacco da giù’, ormai proverbiale tanto da essere diventato perfino uno sketch di Casa Surace. Nel pacco da giù, le mamme mettono ancora i prodotti tipici fatti da loro. Nel mio caso, la mia mi ha spedito i dolci del Natale calabrese della costa ionica cosentina: la giuggiulena, sesamo tostato e tenuto insieme dal miele, servito su foglie di clementine; i crustuli, cilindretti di pasta fritta e ricoperta di miele; la pasta a cumpetti, piccole palline di pasta fritta tenute insieme in lastre con il miele. Giù l’uso di semi e di miele tradisce un’origine ‘mediterranea’. Poi le parole: giuggiulena viene, secondo Rohlfs, dall’arabo gulgulan (sesamo).

Quando ho scartato il pacco, mi è tornata in mente una questione ‘blochiana’: perché i dolci tipici del Sud non si sono diffusi a livello industriale nel resto del paese? Come mai a Reggio Calabria a Natale si mangiano il panettone e il pandoro, o il panforte, o i ricciarelli, e a Milano non si mangiano i petrali (se escludiamo le migliaia di ‘pacchi da giù’ che hanno intasato le poste)?

A voler dare una risposta da storico delle Annales senza fare lo storico – e anzi, da iscritto alla pagina Facebook Alessandro Barbero noi ti siamo vassalli mi dichiaro vassallo dell’esimio storico e chiedo il suo numinoso intervento – si direbbe che la ragione stia nella capacità del capitalismo del nord di produrre in serie – modificandoli – alcuni dolci tipici della loro tradizione, veicolandone il consumo tramite la reclame ma anche attraverso forme ‘indirette’ di pubblicità come i grandi mezzi di comunicazione di massa, la televisione e il cinema.

Non si tratta qui di invocare l’autarchia dolciaria boicottando il panettone. La purezza non esiste – come dimostra anche lessicalmente la nomenclatura dei dolci indicata sopra; ma come dimostra anche il fatto che i dolci ‘nordici’ industriali sono radicalmente diversi dalla loro versione originaria (che temo sia a sua volta altrettanto ‘mitica’) – se non come ideale normativo di qualche imprenditore dell’identità. Eppure è un fatto che l’omologazione gastronomica (pensiamo, sul salato, ai tortellini) sia avvenuta: al Sud si mangia il cotechino, al Nord non si mangia il capitone.

Ortiz diceva che le culture si mescolano, e la chiamava transculturazione, a voler dire che tra due culture che si incontrano nasce un tertium genus che prende da entrambe. E aveva coniato il termine per differenziarlo dall’acculturazione che – come dice Malinowski nell’introduzione al Contrapunteo – “implica, a causa della preposizione ad […], il concetto di un terminus ad quem”.

Tuttavia, se in Calabria mangiamo il panettone e a Milano non mangiano la giuggiulena, non sarà che c’è una cultura subalterna e colonizzata, e non di transculturazione si tratta (se escludiamo il panettone alla ‘nduja)?

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