di Giovanni Vacca

Da alcuni decenni a questa parte siamo all’interno di una triplice rivoluzione: una rivoluzione economica (la globalizzazione), una rivoluzione tecnologica (la digitalizzazione), una rivoluzione linguistica (l’internazionalizzazione dell’inglese). Gli italiani, pare, hanno digerito o almeno accettato le prime due ma faticano ad accogliere la terza. Da quando è invalso il termine lockdown (che viene quasi sempre pronunciato con l’accento sbagliato, sulla seconda sillaba quando dovrebbe essere sulla prima), assistiamo a una ripresa di un mai scomparso patriottismo linguistico che, nel nobile intento di salvare la grande tradizione della lingua italiana, se la prende col bersaglio sbagliato: l’inglese.

L’inglese, come è noto, è da sempre uno dei problemi principali nella formazione scolastica e culturale degli italiani. Pare che il nostro sia uno dei paesi in cui si spende moltissimo per l’apprendimento della lingua di Shakespeare ma con scarsissimi risultati: basta ascoltare i nostri conduttori e commentatori televisivi o i nostri politici a confronto dei loro colleghi stranieri (con la mirabile eccezione di Virginia Raggi e di pochi altri) per rendersene conto. Anche i commentatori della stampa fanno a gara a rivendicare la necessità di usare la nostra lingua per non arrendersi agli anglicismi.

Tutto questo è indice di molte cose, prima fra tutte della profonda incomprensione che in Italia si ha di questa lingua, della sua fonetica, dei suoi meccanismi interni, della sua storia: per molti l’inglese resta un continente sconosciuto e incomprensibile perché è, per molti aspetti, una lingua che non può essere paragonata a nessun’altra. Innanzitutto, l’inglese non ha un’Accademia, come da noi quella della Crusca, che ne determinata l’uso ed è, in tal senso, la più ‘democratica’ delle lingue: la decide chi la parla, perché una volta che un termine entra nell’uso nessun linguista si occuperà di stabilire se può, o no, entrare nei vocabolari come avvenne da noi, per esempio, quando fu inventato il termine “petaloso”, che ha poi avuto ben poca fortuna.

In secondo luogo l’inglese, a differenza delle altre lingue, non ha paura dell’invasione di termini stranieri: ne ha adottati tantissimi e in alcuni casi li ha addirittura inventati ‘calcandoli’ sulle lingue d’origine (come nel caso di en suite bathroom, per “bagno a cui si accede dalla stanza da letto”, che in francese non esiste) e ciò lo rende ricco e forte. Terzo, l’incredibile proliferazione di questa lingua non è dovuta, come si crede, solo alla sua diffusione o alla sua imposizione ma al fatto che si tratta di una lingua ‘modulare’ per cui i suoi elementi (pensiamo, per esempio, ai phrasal verbs che hanno una potenzialità combinatoria virtualmente infinita), il che la rende di una plasticità assoluta.

È ovvio che poi, essendo la capacità espansiva di una lingua legata da un lato ai rapporti sociali che essa attiva, e dall’altro alla varietà di situazioni in cui essa è richiesta, l’inglese abbia una forza propulsiva immensa, basti pensare che ha già dei termini per indicare azioni che noi, in italiano, possiamo descrivere solamente attraverso delle lunghe perifrasi: dare fastidio agli altri usando impropriamente il cellulare in luoghi pubblici (sodcasting), per esempio, oppure andare per negozi e poi acquistare su internet (showrooming), per il quale esiste anche il suo contrario (webrooming).

Le geremiadi moralistiche sull’abuso di anglicismi, come la stantia polemica sulla parola media, per la quale quest’ultima andrebbe pronunciata con il suono latino e non con quello inglese, non tiene conto che questo termine nasce in connessione con la parola mass, per cui la locuzione corretta è ‘mass media’, essendone media solo un’abbreviazione. La pronuncia giusta, pertanto, è quella inglese, perché è tramite l’inglese che la parola è rientrata in circolazione e non tramite la reviviscenza del latino dove, tra l’altro, “massa” si dice multitudo e non mass.

Le lamentele sugli anglicismi hanno ripreso vigore, come abbiamo visto, con l’utilizzo del termine lockdown che, secondo alcuni andrebbe tradotto con “chiusura” o, addirittura, con “clausura”. Quello che non si vuole capire è che in un mondo sempre più unificato, certe parole sono ‘internazionali’ e come tali nascono e vivono: i mass media ci sono in tutto il mondo e ugualmente il lockdown: usare queste parole significa poter comunicare rapidamente, e senza rischi di incomprensione, in tutto il mondo: è un’esigenza, non un effetto dell’imperialismo anglosassone, sebbene l’inglese resti la “lingua dell’impero” . E non ci sarà reazione di difesa che arresterà questo processo.

Quello che, in realtà, deteriora le lingue è l’inflazione linguistica: è il caso, per esempio, della parola ‘importante’ che ormai in italiano è usata quasi sempre a sproposito. Oggi sembra che tutto ciò che può essere “rilevante”, “significativo”, “decisivo” (o altre innumerevoli parole ben più adatte a definire con correttezza e precisione qualcosa), venga ridotto ad essere “importante”: basta ascoltare qualsiasi trasmissione televisiva per rendersene conto. È dunque ora di cambiare atteggiamento: conoscere l’inglese, paradossalmente, permette di conoscere meglio anche l’italiano, perché il parlante è costretto ad allargare il suo orizzonte, ad effettuare confronti, a scavare nella propria lingua e ad osservarne il funzionamento.

Purtroppo, l’apprendimento dell’inglese in Italia è tuttora molto difficoltoso: non si riesce ad accettare che una lingua bisogna cominciare ad impararla dai suoni, che in inglese sono tanti, molto di più di quanti ce ne sono in italiano, e non dalla grammatica; e questo frustra in partenza gli sforzi di molti. Bisognerebbe quindi, invece di ostracizzare l’inglese, accettarlo con serenità e leggerezza, affrontarlo in un altro modo e vederlo come una possibilità, non come un alieno che minaccia di distruggerci.

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