Nessuna conferma, anzi soprattutto smentite. Ma che il ministero del Tesoro e la seconda banca italiana stiano parlando del futuro di Mps è certo e non è una novità. Negli ultimi tempi la discussione sarebbe entrata un po’ più nel vivo, iniziando a parlare di numeri. In sostanza di quello che lo Stato dovrà pagare per uscire dalla banca senese. Ieri sera il ministero ha diffuso una nota per spiegare che “sono talmente destituite di fondamento le notizie circolate oggi intorno alla vicenda Mps e in particolare si precisa che dal Tesoro non è stata presentata nessuna proposta ad alcuna controparte”. Nel pomeriggio il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri aveva affermato: “Stiamo lavorando e abbiamo lavorato per sostenere e rafforzare questa banca, definendo un percorso di rilancio con la commissione europea, che passerà anche per una operazione di fusione con un partner sufficientemente forte da consentirle un futuro” spiegando poi che la via della fusione “è un percorso che può prendere diverse forme, seguiamo gli sviluppi tenendo fermo l’obiettivo strategico di rilancio” dell’istituto di credito che dovrà arrivare a “camminare sulle proprie gambe”. Nelle scorse settimane la nomina dell’ex ministro del Tesoro Piercarlo Padoan alla presidenza di Unicredit aveva alimentato le speculazioni su una prossima operazione tra le due banche. Padoan è stato infatti l’artefice del salvataggio della banca senese nel 2016 e dell’ingresso dello Stato nell’azionariato con una partecipazione del 68%. Non a caso a salire dopo l’annuncio della designazione erano state le azioni Mps, più che quelle di Unicredit.

Riavvolgiamo un poco il nastro. Solo le ultime puntate perché i semi del disastro Mps furono piantati ancora nel 2007 con la scellerata acquisizione della strapagata Antonveneta. Al timone c’era Giuseppe Mussari, all’epoca anche presidente dell’Associazione bancaria italiana, poi condannato a 7 anni e mezzo di reclusione per le spericolate operazioni finanziarie messe in campo per pagare Antonveneta. Riavviciniamoci all’oggi. Nel dicembre del 2016 Mps sta per finire definitivamente in bancarotta. Lo Stato interviene, di nuovo, e rafforza drasticamente la sua presenza nel capitale salendo al 68%. Il Tesoro pagò le azioni 4,8 euro l’una. Oggi valgono 1,2 euro. Sinora lo Stato ha messo nel pozzo senese 7 miliardi di euro. In sostanza si sono quasi tutti volatilizzati. All’orizzonte si prospetta un, nuovo, aumento di capitale di almeno 1,5 miliardi. Il Tesoro dovrebbe quindi mettere almeno un altro miliardo.

Lo stato, questi sono gli accordi con Bruxelles, dovrebbe uscire dall’azionariato entro il 2022. Ma, in queste condizioni, la banca è invendibile. Per ingolosire possibili acquirenti serve una “caramellina”, o meglio una torta a tre piani viste le cifre di cui si parla. Anche perché oltra ai problemi finanziari ci sono quelli giuridici con richieste di risarcimenti che valgono potenzialmente fino a 10 miliardi di euro. Di questi 2,2 miliardi riguardano la gestione di Alessandro Profumo e Fabrizio Viola (dal 2012 al 2016), a loro volta condannati in primo grado a sei anni e mezzo di reclusione per agiotaggio e false comunicazioni. Naturalmente non tutte le domande di risarcimento verranno accolte, per alcune le probabilità di successo sembrano davvero basse. Ma visto il loro ammontare complessivo l’impatto sui conti potrebbe essere comunque notevole. Per rendere la banca presentabile l’aumento di capitale a carico del ministero del Tesoro potrebbe quindi salire fino a 2,5 miliardi. Parte di questa cifra servirebbe per gestire i circa 6mila esuberi stimati. A questi soldi si aggiungerebbero poi 3 miliardi sotto forma di crediti fiscali. I conti, a spanne, sono presto fatti. Da qui al 2021 la banca senese sarà costata ai contribuenti almeno 10 miliardi di euro.

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