Con un piede a schivare il cibo ridotto in poltiglia e con l’altro le schegge di vetro, ci si fa spazio per le strade di Beirut, quelle che, ovunque si vada, sono sempre sporche, strette, dissestate. Prima a destra, poi a sinistra, ancora a destra, e poi una salita. Q Hotel, terzo piano, stanza numero 304. L’albergo è lì, ad Hamra, in uno dei principali quartieri commerciali della città. È lì, con la sua insegna fatiscente, i mattoni a vista, la facciata ingiallita. Dove, tra madie antiche e moquettes consumate, il tempo sembra essersi fermato agli anni Cinquanta. Dove Mariema – la schiena curva, la maglietta azzurra un po’ scesa, il viso scavato – è distesa sul letto con il lenzuolo sgualcito caduto a terra. “Guarda – urla singhiozzando – non mi posso muovere”. Lo sforzo per alzare le braccia, le mani a peso morto, la rigidità delle gambe. Dodici mesi tra le mura domestiche di una facoltosa famiglia libanese, l’hanno ridotta così: immobile. Non un acciacco, un semplice malessere, un’indisposizione. Ma un anno di lavoro come “maid”, cioè domestica, in quella che “più che una casa è stata prigione”. Il luogo di ogni determinazione e di ogni dolore; un alternarsi di sforzi e fatica, coercizione e soprusi, di subordinazione e umiliazioni; giorni di paura e notti di tormento. Una “condanna” che le è costata la neuromielite ottica, una malattia del sistema nervoso centrale. “Un male che ti toglie la vista – continua con un filo di voce – ti inghiotte, atrofizza i muscoli, e non ti dà tregua”.

Prigioniera in casa Mariema, 24 anni, orfana di madre e di padre, ha lasciato la Sierra Leone a luglio dello scorso anno con un biglietto di sola andata per Beirut. L’arrivo in aeroporto; l’incontro con il kafeel, cioè lo sponsor che ha organizzato il viaggio; la firma del contratto, 150 dollari al mese per 12 mesi, nero su bianco, per un totale di 1800 dollari, di cui ne vedrà solo 320; il sequestro del passaporto, e poi, il confinamento nella “isolation room”. “La stanza dove aspetti per 12 ore, senza cibo e senz’acqua, che la “Madame”, ovvero la tua datrice di lavoro, ti venga a prendere”. Dodici ore che sembrano non passare mai. “Dove ti chiedi perché ti hanno preso i documenti, tolto il cellulare, e poi capisci, solo poche settimane dopo, che è il loro modo di controllarti. Ti hanno in pugno, possono ricattarti, sei la loro merce”.

Senza diritti: il sistema della “kafala” – Le ragazze come lei – 250mila donne provenienti da paesi dell’Africa e del sud-est asiatico, secondo i dati dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro – non sanno che si consegnano a gente che cerca profitto. Che gli sponsor e le “Madames” fanno parte della kafala, il sistema di sponsorizzazione che regola il lavoro domestico dei migranti nel Paese dei Cedri, così come in Giordania, Bahrain, Kuwait, Oman, Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti. Non sanno che sono escluse dalla legge sul lavoro del paese ospitante e che, quindi, non godranno di nessun diritto, né di nessuna protezione. Che il rapporto con il loro datore di lavoro sarà impari, feroce, violento. E che lo sponsor – solo lo sponsor – in qualità di “titolare” del permesso, determinerà il loro status giuridico e potrà revocarlo. “Non c’è modo di negoziare con questo sistema di schiavitù“, afferma Farah Baba, portavoce di Anti-Racism Movement, un’associazione libanese che lo scorso aprile ha condotto un’indagine tra 356 lavoratrici domestiche e altri lavoratori migranti, i cui risultati sono allarmanti. “Non puoi opporti al tuo sponsor – precisa scandendo le parole – perché è l’unico legame legale che hai in Libano“. E, nonostante il Ministero del Lavoro libanese abbia deciso di finalizzare, il 4 settembre, un nuovo contratto, “le nuove regole proposte – come sottolinea Aya Majzoub, ricercatrice libanese presso Human Rights Watch – non serviranno a nulla, se non saranno accompagnate da un rigoroso meccanismo di applicazione”. Più critica Sawsan Abdulrahim, docente presso l’Università americana di Beirut. Per lei, la riforma del contratto è solo un passaggio intermedio che lascia altre problematiche irrisolte perché “i datori di lavoro fanno, e continueranno a fare, solo ciò che gli conviene”.

Sfruttamento infinito – Per ora, l’imperativo rimane lo stesso: abbassare la testa, eseguire, ubbidire. Alla “Madame” che dà ordini con un “ehi tu”, a suo marito che, invece, ti chiama sharmouta, puttana, e alle interminabili ore quotidiane di lavoro. “Diciannove – ribadisce Mariema con il vuoto negli occhi – Sette giorni su sette. Nessun giorno di riposo”. La sveglia alle 4 del mattino, un pasto al giorno consumato in fretta e furia, in piedi, al buio, nel retro del bagno di cortesia, poco tempo per dormire, per terra, al freddo, sul terrazzo di casa. “Un giorno ho dovuto lavare a mano 16 tappeti. Uno dopo l’altro. Senza sosta”. Le mani nell’acqua fredda, il male alle braccia, la fatica. “Appena finito, mi sono seduta sul divano, ero davvero esausta, ma la “Madame” mi ha vista e mi ha ordinato di alzarmi, sbraitando: ‘Levati da lì, non voglio che i tuoi germi infettino il mio sofà'”. Poi, l’ha presa per i capelli, come ha sempre fatto ad ogni cenno di stanchezza, e l’ha colpita in testa, più e più volte con un bastone di legno. “E la cicatrice tra i capelli? – dice chinando il capo in avanti – Questo è quello che resta”. I colpi. La ferita. La pena. Che si ripete ogni giorno nell’atto della mortificazione, nell’avidità del rimprovero. Che spinge, spesso, l’uomo di casa all’abuso, all’offesa. “Mi ha preso per i fianchi, da dietro, con le mani sudate, ricorda quasi con vergogna. “L’ho spinto via, ma niente, le sue dita hanno stretto più forte. Mi ha detto: ‘Sono qui per stuprarti‘”. L’ha violentata così, nella sala da pranzo, con un coltello puntato alla gola, consapevole del proprio potere. “Non puoi denunciare. Tu prova a scappare, tanto non ci arriverai mai “pulita” alla stazione di polizia, perché il tuo nome è già sulla lista delle persone da arrestare. Il coraggio, qui, ti costa la prigione».

Gli intoccabili – Lo sa bene Patricia Pradhan, coordinatrice di This is Lebanon, un’organizzazione che da anni denuncia le violenze subite dalle lavoratrici domestiche in Libano. “Riceviamo una ventina di segnalazioni al giorno – racconta con lo sguardo fisso sulle foto delle ragazze che le hanno chiesto aiuto – ma è davvero difficile, se non impossibile, ottenere giustizia“. Neppure quando l’evidenza non lascia spazio ad ambiguità. “Mi ha obbligato a fare sesso. Gli ho detto che avevo il ciclo, ma non mi ha creduto”. La voce di S.M., una ragazza africana arrivata in Libano lo scorso agosto, è reale. Nel video inviato a This is Lebanon qualche settimana fa, ha gli occhi di chi è stanca di lottare perché, per più di un anno, è stata picchiata e violentata dal suo datore di lavoro. “Non mi ha creduto – ripete nel video – e ha infilato la sua mano nella mia vagina”. Una sopraffazione innegabile, atto infame, dolore inesauribile, che sbugiarda quel volto di uomo per bene svelandone un’indole ignobile. “Ti hanno venduta come una schiava“, le dice durante un incontro registrato di nascosto con il cellulare dalla ragazza. “Cosa credi? – continua alzando la voce – Di avere dei diritti in Libano? Di chiamare il Consolato pensando che possa avere paura di qualcuno? Qui, sono il più forte”. Gli uomini come lui possono fare quello che vogliono. È una certezza, “perché – sottolinea Patricia – sono generalmente protetti dai partiti e dai leader politici”. Loro, qui ed ora, sono gli unici intoccabili.

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