Cabernet Sauvignon, Merlot, Tempranillo, Airen, Chardonnay… Prima di tornare ai produttori, impegnati in questi giorni in vendemmia, intermezzo con un pezzo sui varietali più diffusi nel mondo.

In Italia siamo abituati a bere i vini locali, spesso della propria regione, e poche persone fuori dal settore conoscono varietà come Tempranillo o Granache, che tuttavia sono molto più coltivate nel mondo rispetto ai ‘nostri’ Sangiovese o Nebbiolo. L’Italia è ‘il paese dei vitigni autoctoni’, conosciuto internazionalmente per la varietà dei vitigni locali, che hanno resistito anche all’ondata degli ‘internazionali’ (come Cabernet, Merlot, Chardonnay…) degli anni 90. Sarà interessante vedere se e come il Covid inciderà sulle produzioni future, cosa chiederà il mercato, come riprenderanno le esportazioni.

Intanto l’11 settembre è uscito sul Financial Times questo articolo di Jancis Robinson, una delle principali giornaliste e divulgatrici del settore: “Jancis Robinson on the evolution of wine varieties”, che analizza i trend degli ultimi anni partendo dallo studio sul mercato globale pubblicato dai professori Kym Anderson, Signe Nelgen e Vicente Pinilla (Global Wine Markets, 1860 to 2016, University of Adelaide press). Lo studio si ferma al 2016 ma mette in evidenza quelle che stono state le tendenze, con i paesi del cosiddetto ‘Nuovo mondo’ (Stati Uniti, Australia, Nuova Zelanda…) non più soltanto importatori di vino come fino al finire del ‘900 ma anche grandi produttori.

La superficie vitata è andata in generale contraendosi, anche a causa del ‘vine pull scheme’ attuato dall’Europa per ridurre le quantità, ma nei paesi più freddi come Cina, Canada, alcune aree della Nuova Zelanda e soprattutto Regno Unito è aumentata molto e va aumentando. Nel Regno Unito per esempio nel 2018 si sono prodotti 117.000 ettolitri di vino, contro i 10.000 del 2008.

Globalmente, se negli anni 90 il vitigno in vetta alla classifica era l’Airen, utilizzato soprattutto in Spagna per la produzione di acquavite, nel 2016 è il Cabernet Sauvignon a guidare la classifica, seguito da Merlot (in declino rispetto ai ’90) e dal Tempranillo, vitigno spagnolo arrivato addirittura al terzo posto. L’Airen scende al quarto, davanti al bianco più diffuso al mondo, lo Chardonnay, che dal ‘90 ha triplicato la superficie. Seguono Syrah/Shiraz, la Garnacha/Granache (seconda negli anni ’90), i trebbiani / ugni blanc, primi italiani in lista, anche se sulla percentuale incidi più la Francia che l’Italia, e poi Pinot Nero, grazie soprattutto alle produzioni in forte crescita in Nuova Zelanda e Stati Uniti, e Sauvignon Blanc.

Una classifica molto diversa da quella che abbiamo in Italia, dove ben il 62% della superficie è coperta dai vitigni oltre il decimo posto in classifica (contro il 20% dell’Australia, per esempio, o il 2% della Nuova Zelanda) (fonte: dati OIV analizzati da I numeri del Vino, a questo link) e gli ultimi dati disponibili (2017), vedono al primo posto il Sangiovese, seguito a distanza da Montepulciano, Glera, Pinot Grigio. Nel nostro paese, dagli anni 2000 al 2016 la percentuale dei vitigni autoctoni rispetto agli internazionali è leggermente diminuita, ma è anche vero che negli ultimissimi anni sembra esserci un nuovo interesse verso i locali, e i nuovi vigneti piantati entrano in produzione al terzo anno.

Trend positivo per la conservazione e protezione delle centinaia di vitigni locali, non sempre però poi facili da vendere e da comunicare all’estero.

Attendiamo i prossimi dati ufficiali per capire la tendenza. “Sarei sorpresa – chiude la Robinson – se la prossima volta che Anderson e Nelgen decideranno di intraprendere questo compito erculeo, non registrassero un aumento della proporzione e del numero di varietà autoctone. Dopo tutto, se Tesco può includere l’oscura varietà bianca delle Marche Passerina nella sua collezione dei The Finest…”.

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Arrivano i vini cinesi, ma davvero ne abbiamo bisogno?

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