Un’atmosfera malsana circonda tutta la vicenda dello scandalo Becciu, dei fondi segreti della Santa Sede, degli investimenti speculativi spericolati e senza controlli fatti con i soldi della Chiesa e del dirottamento di finanziamenti a persone del clan familiare.

E’ un’atmosfera da Colosseo, da sangue e arena, da pubblico assetato di vedere come i gladiatori affrontano le belve feroci e si ammazzano tra di loro. Gli sguardi sono rivolti all’imperatore che ha mostrato il pollice verso nei confronti di un intoccabile, decapitato sul posto. Ma l’eccitazione dell’anfiteatro è lungi dall’essersi placata.

Non c’è dubbio che lo scandalo cade in un momento difficile del pontificato di Bergoglio e più che il plauso dei fedeli onesti per il suo pugno di ferro rischia di pesare l’immagine di un Ercole che non riesce al pulire le stalle insozzate perché ad ogni angolo scopre nuove porcherie.

La fase finale del pontificato bergogliano è già cominciata. A dicembre Francesco compie ottantaquattro anni. Si delinea una lunga stagione di preconclave in cui dietro le quinte i vari gruppi si posizionano alla ricerca dell’ “uomo giusto” da chiamare alla guida della barca di Pietro dopo Francesco. Sono fenomeni concreti, tipici di ogni grande realtà storica, sociale e politica in senso lato. La Chiesa non è un corpo angelicato, che aleggia sopra la terra, e l’idea di un conclave come atto magico è stata già smontata a suo tempo con ironia da Joseph Ratzinger.

In queste ore gioisce silenziosamente l’area anti-bergogliana, felice di poter sussurrare nei corridoi che Francesco non è un taumaturgo e che una personalità di primo piano come Becciu, che aveva fatto parte della Segreteria di Stato bergogliana, è coinvolta in un scandalo di malversazione che inonda i media planetari. Non importa nemmeno a quest’area – in cui prosperano le mezze figure abituate da decenni a sospingere la spazzatura sotto i tappeti – quali saranno gli esiti concreti delle indagini in corso da parte della magistratura vaticana. L’importante è che miasmi maleodoranti di affari sporchi circondino il governo di papa Bergoglio.

Tace un’altra area: la Palude. Quei settori, che non fanno la guerra a Francesco per motivi teologici o ideologici (al limite per argomentazioni di convinzione), ma che sono abituati a fare le loro carriere sperando che non vi siano scosse nella macchina burocratica e che perciò guardano con secolare disincanto a qualsiasi scossa di slancio rinnovatore.

Ma tace anche nel suo complesso il fronte riformatore, che dovrebbe dichiarare pubblicamente il suo appoggio al gesto senza precedenti di Francesco di cacciare dal collegio cardinalizio il capo di una congregazione vaticana, cioè un ministro in carica del governo della Chiesa.

Ogni volta che Francesco si trova ad affrontare problemi difficili e scelte ardue e rischiose viene lasciato solo. Vescovi e cardinali riformatori non hanno alzato la voce contro il gesto inaudito di un ex pontefice come Ratzinger di immischiarsi negli affari di governo del pontefice regnante, quando il dimissionario Benedetto dopo il sinodo dell’Amazzonia si è schierato contro qualsiasi apertura in tema di un clero sposato cattolico.

E anche adesso non si sentono interventi autorevoli a Roma e altrove per sostenere il pugno di ferro usato da Francesco e incoraggiarlo ad andare fino in fondo nella riorganizzazione dei sistemi di controllo di tutto l’apparato finanziario vaticano – non della banca Ior soltanto.

Il pugno di ferro del pontefice mostra la sua determinazione nel volere rimarcare che non esistono personalità al di sopra delle regole. Ma al pugno di ferro deve seguire una riorganizzazione rigorosa del sistema finanziario vaticano.

Serve una normativa di controllo per la gestione dei Fondi affari riservarti della Segreteria di Stato, come ha suggerito a papa Francesco tempo addietro il cardinale Marx (presidente del consiglio economico vaticano). La segretezza di alcuni fondi, necessaria a tutte le organizzazioni statali, non deve significare arbitrio della gestione.

Serve chiarezza nell’eliminare ogni residuo di feudalità nella gestione di soldi, propria delle diverse amministrazioni vaticane. Libero Milone nel 2017 (proprio per intervento diretto del cardinale Becciu) è stato cacciato dal suo incarico di revisore generale dei conti perché non voleva arrestarsi davanti a nessun “santuario”. Sarebbe ora di rendergli giustizia. Così come sarebbe urgente non avere più un revisore generale ad interim.

Egualmente sarebbe necessario che si facesse finalmente luce sulla sostituzione a capo dell’Aif (l’autorità di controllo finanziario del Vaticano) di un professionista di livello internazionale come Renè Bruelhart, allontanato nel 2019 alla scadenza del suo incarico. Contemporaneamente, come è stato notato da autorità finanziarie internazionali, quando l’Aif segnala nel suo rapporto annuale operazioni sospette portate meritoriamente alla luce è anche necessario che si sappia chi sono stati i colpevoli e come sono stati perseguiti.

Ad ogni crisi si tocca con mano la solitudine di Francesco. Ma la sua tenacia è nota. E della sua personalità fa parte anche la consapevolezza che dopo mezzo millennio la struttura monarchica assoluta e segreta, che la Santa Sede ha ereditato dal concilio di Trento, ormai ha fatto il suo tempo.

Se Francesco vuole preparare le condizioni per una successione che continui la sua spinta innovatrice, dovrà dedicarsi ancora di più a riformare nel segno di una efficiente trasparenza la struttura vaticana. Per temperamento i lavori organizzativi non gli piacciono. Ma anche Mosè nella sua traversata del deserto doveva occuparsi di come sistemare ogni sera l’accampamento del suo popolo in cammino.

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