Il clima di ottimismo suscitato dal primo contatto fisico tra Patrick Zaki e la sua famiglia nel carcere di Tora subito mitigato da altre notizie in arrivo dalle prigioni del regime egiziano. Lo studente egiziano del corso Erasmus all’università di Bologna l’altro giorno ha potuto incontrare la madre e affidato ad una lettera le considerazioni sul suo buono stato di salute generale. Nel frattempo all’interno di tre prigioni del Paese, compresa quella di Tora alla periferia sud del Cairo, cinque prigionieri di coscienza, rinchiusi per reati politici, sono morti a causa del deterioramento delle loro condizioni di salute e senza ricevere cure adeguate.

A proposito del carcere di Tora, il 6 settembre la Procura generale del Cairo ha prodotto l’ennesimo capo d’accusa di Ibrahim Metwaly, l’avvocato della famiglia Regeni in Egitto. Di lui il Fatto aveva scritto una decina di giorni fa quando lo stesso Metwaly, arrestato per la prima volta nell’ottobre 2017, era stato oggetto di un ordine di scarcerazione da parte della Corte penale in merito ad un presunto caso di cospirazione contro la sicurezza del Paese. Domenica scorsa Metwaly è effettivamente uscito da Tora, trasferito alla stazione di polizia di Kafr el-Sheikh nel governatorato dove risiede assieme alla sua famiglia. Da un giorno all’altro tutti, i suoi familiari e i colleghi dell’Ecrf (Commissione egiziana per i diritti e le libertà) attendevano il rilascio del professionista a quasi tre anni dalla sua incarcerazione dopo essere stato arrestato all’aeroporto internazionale mentre era in partenza per la Svizzera. Nella tarda mattinata di ieri la nuova doccia fredda.

L’ennesimo ‘Caso’ denunciato dalla Sicurezza Nazionale, braccio armato giudiziario del presidente Abdel Fattah al-Sisi, in cui Metwaly entra con un’accusa che rasenta l’incredibile. Il caso è il 786 del 2020 e l’avvocato egiziano dovrà rispondere del reato di aver creato un gruppo rivoluzionario mentre si trovava in prigione: “Abbiamo ricevuto la notizia poco fa – afferma un membro dell’Ecrf -, il nostro collega Ibrahim è stato di nuovo arrestato su ordine della sicurezza nazionale. C’è poco da aggiungere. L’ondata di arresti e di ritorsioni nei confronti degli attivisti e dei difensori dei diritti umani continua”.

Non è la prima volta che Metwaly si trova ad un passo dalla liberazione. Qualcosa di identico era successo nell’ottobre del 2019, esattamente due anni dopo il suo arresto: l’ordine di scarcerazione e poi, due settimane più tardi, il nuovo caso giudiziario e il ritorno in cella. Ad attendere Ibrahim Metwaly altri giorni, settimane e mesi di prigione, ma c’è addirittura a chi è andata peggio. Ad esempio i cinque attivisti usciti dentro una bara dalle prigioni cairote di Tora e al-Fayoum e da quella di Borg el-Arab di Alessandria d’Egitto. Quattro episodi si sono concentrati in appena 24 ore di tempo, tra mercoledì e giovedì scorsi, ma l’ultimo risale a ieri. Amr Abu Khalil, psichiatra, è morto pare a causa di un violento attacco cardiaco durante una violenta discussione con le autorità carcerarie di Tora I. Khalil aveva chiesto di poter ricevere dei farmaci importanti per le sue condizioni di salute. Lo psichiatra era stato arrestato il 2 ottobre scorso all’interno della sua clinica dopo un blitz delle forze di sicurezza. Generiche le accuse, sempre legate alla pubblicazione di false notizie sui social e attentato alla sicurezza dello Stato. In realtà Khalil potrebbe aver pagato il fatto di essere il fratello di Haitham Khalil, uno dei più noti presentatori televisivi e volto del canale al-Sharq. Ci sono poi le vittime dei giorni scorsi.

Ahmed al-Nabi fu arrestato il 23 dicembre 2018 al Cairo International mentre si stava imbarcando a bordo di un aereo diretto in Turchia assieme alla moglie e ad una delle tre figlie (le altre due vivono negli Stati Uniti). Di loro si persero le tracce per tre settimane. La figlia rimase per dieci giorni in custodia all’aeroporto prima di essere rilasciata, la moglie Raya uscì dalla detenzione nel maggio 2019 mentre al-Nabi è stato rinchiuso a Tora in regime di ‘alta sicurezza’. L’uomo, 64 anni, soffriva di gravi problemi al fegato, ma stando ai suoi legali in prigione non avrebbe ricevuto le cure necessarie, fino alla sua morte dell’altro giorno. Non è andata meglio agli altri tre detenuti, ad esempio Hassan Shaaban, condannato all’ergastolo dalla corte militare e morto venerdì nella prigione di al-Fayoum. Mohamed Abdelrahmane, membro della Fratellanza Musulmana, è stato arrestato nel 2014 e stava scontando una pena di quindici anni. Anche nei suoi confronti, visti i suoi problemi di salute, l’amministrazione carceraria di Tora, dove era rinchiuso nel blocco II ‘Scorpion’, non avrebbe usato tutte le precauzioni mediche del caso e come altri sarebbe morto in cella senza cure. Infine il caso di Subhi al-Sakka, morto nella prigione di Borg el-Arab ad Alessandria d’Egitto. Secondo il portale online anti-regime Mada Masr l’uomo sarebbe morto per gravi negligenze mediche.

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