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Autostrade, meglio la Borsa dei Benetton? Agli investitori importano i profitti, non la sicurezza

Autostrade, meglio la Borsa dei Benetton? Agli investitori importano i profitti, non la sicurezza
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L’uscita del gruppo Benetton da Autostrade potrebbe segnare una svolta nel rapporto tra Stato e concessionarie. Usiamo il condizionale perché il diavolo, com’è noto, si nasconde nei dettagli e i fronti aperti – a partire dal prezzo di vendita del pacchetto di Atlantia – diranno molto sulla portata dell’accordo. E poi c’è la quotazione in Borsa, sulla quale nessuno sembra eccepire alcunché.

E’ appena il caso di rilevare che togliere una concessione dopo il crollo di un ponte con 43 morti, complice un evidente stato di incuria a fronte di 13 miliardi di utili in 20 anni, al netto delle responsabilità istituzionali, è il minimo sindacale del buon senso. Ma abituati ad una lunga storia di privilegi nella gestione autostradale ai quali nessun governo, ripetiamo nessuno, ha mai messo mano, si ha sensazione di assistere ad un fatto storico.

E del resto basterebbe il grido d’allarme di buona parte della stampa sul “pericolo venezuelano” per capire che finalmente qualcosa si è rotto in quella gigantesca macchina da soldi. L’abitudine al privilegio ci ha fatto scordare i fondamentali. Può sembrare strano, ma le autostrade sono proprietà dello Stato, il quale può affidarne la gestione a un privato per un tempo prestabilito, in cambio della riscossione di un pedaggio a copertura dell’eventuale costo di costruzione e degli investimenti, scontando una quota di “giusta remunerazione” per il gestore. Finito il periodo concessorio la rete torna allo Stato, che può decidere se gestirla in proprio (magari mantenendo una tariffa a sola copertura degli investimenti e delle spese di gestione) o riaffidarla a terzi.

La realtà è ben diversa. I 3000 km di rete Aspi sono già stati ampiamente ripagati e il pedaggio, detratti gli investimenti, era ormai funzionale ad accumulare profitti da capogiro in una sostanziale assenza di rischi, mediante convenzioni blindate che ne garantivano la redditività. Una rendita di posizione che non riguarda solo Aspi ma quasi tutto il sistema delle concessioni autostradali, ognuna con espedienti contrattuali creativi per by-passare i rovesci del mercato, senza contare le ripetute proroghe del periodo concessorio in barba alle normative europee. Contratti capestro per lo Stato, che sostanzialmente si impegnava ad assicurare gli utili dei vari Gavio e Benetton.

Con la nuova gestione a controllo pubblico, Aspi si impegna a varare un nuovo piano finanziario e a ridurre le tariffe, prima della quotazione in Borsa. E qui i dettagli peseranno eccome e soprattutto passeranno al vaglio dei cosiddetti investitori, come qualunque scelta della società. Siamo al punto. Sia pure con la maggioranza in mano allo Stato, perché consegnare al mercato borsistico metà della rete autostradale italiana?

Gli investitori fanno il loro mestiere, cioè massimizzare il rendimento dei capitali investiti, che spesso significa tagli alla sicurezza, alla ricerca e sviluppo, al personale, ai servizi. Diciamolo diversamente. Come reagirà BlackRock o qualunque altro fondo internazionale alla riduzione delle tariffe? Come si comporterà il titolo sui listini?

L’autostrada è quasi un monopolio naturale e non si capisce perché un gestore dovrebbe ridurre i pedaggi se non in virtù di una scelta pubblica, lontana dalla logica di mercato. E che dire della sicurezza? Siamo sicuri che la continua pressione del mercato garantisca a tutti viaggi tranquilli? E come reagirà il titolo ad ogni regolamentazione pubblica in tema di servizi, innovazione, investimenti? Un’autostrada non è un’impresa come le altre, è un settore chiave nella vita di un paese, un bene comune paragonabile all’acqua o all’energia. Atlantia è quotata in Borsa, al pari delle imprese del gruppo Gavio e non sembra ci sia andata molto bene.

Tornano in mente le parole di Luciano Gallino, uno dei migliori sociologi dell’economia: “La capitalizzazione in borsa e la massimizzazione del valore per gli azionisti sono diventate criteri di riferimento inaggirabili per gli alti dirigenti. (…) Ne hanno sofferto gli investimenti in ricerca e sviluppo, l’introduzione di nuove tecnologie, il rinnovo degli impianti, così come il livello dei salari e le condizioni di lavoro. (…) I segnali ai quali gli investitori assegnano la maggiore importanza sono il corso quotidiano delle azioni, da cui dipende il valore di mercato dell’impresa, e i flussi di cassa dichiarati da una società nei suoi rapporti trimestrali o semestrali”. (Finanzcapitalismo, 2011).

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