“Per riuscire a spendere (bene) quei soldi ci sono due cose da fare. Investire in capacità amministrativa come ci ha chiesto la Commissione, cioè assumere nella pa i funzionari e tecnici più bravi, pagandoli bene. E ridurre le stazioni appaltanti, cioè gli enti che affidano i lavori, senza però centralizzare troppo perché i territori non vanno esclusi: un centinaio è il numero giusto”. Ora che il lungo negoziato con i partner europei è finito e i prestiti e sussidi per la ripresa post Covid sono in dirittura d’arrivo, il problema non è solo decidere per che cosa utilizzarli. L’Italia deve anche dimostrare di essere in grado di spenderli davvero, nonostante il precedente dei fondi strutturali. Gustavo Piga, docente di Economia Politica a Tor Vergata e all’inizio degli anni Duemila presidente della centrale acquisti Consip, ha qualche proposta. La scommessa va vinta, dice, “perché equivale a dimostrare all’Europa che non abbiamo bisogno che tornino in vigore Patto di stabilità e fiscal compact a causa dei quali fino ad oggi non ci è stato consentito di spendere quando era necessario”.

Due anni fa lei auspicava un New deal alla Roosevelt per spingere la crescita stimolando gli investimenti. All’Italia arriveranno, tra 2021 e 2023, 209 miliardi. Siamo a cavallo?
La scusa che non ci sono risorse non c’è più, ma resta l’altro vincolo che frena gli investimenti: non abbiamo capacità di spendere. Non abbiamo persone capaci di individuare le carenze, fare i progetti e fare i capitolati a prova di ricorso e a prova di necessità di fare varianti successive perdendo anni perché il capitolato era scritto male. In più ci sono regole che hanno impedito alle stazioni appaltanti di fare bene il loro lavoro, con la giusta discrezionalità.

Come si rimedia?
Per prima cosa serve una rivoluzione organizzativa della funzione acquisto pubblico, che in Italia tra acquisti e lavori vale il 15% del prodotto interno lordo. Ci sono fior di dati in base ai quali gli sprechi negli appalti sono dovuti per l’83% a incompetenza e per il 13% a corruzione. Per questo in tutto il mondo sviluppato ci si attrezza per avere acquirenti pubblici di grandissima qualità. Bisogna, come in Francia e nel Regno Unito, prendere le persone più competenti – giuristi ma anche tecnici, architetti, ingegneri – ed essere disposti a pagarle benissimo, altrimenti vanno a lavorare nel privato. Ogni euro in più che spendi per il loro stipendio ti rende 10 in termini di gare ben fatte, senza ritardi e varianti. Ovviamente il loro lavoro va monitorato seriamente e chi non lavora bene deve essere sostituito.

E’ possibile farlo in tempi utili per l’arrivo del Recovery fund?
Mi terrorizza che vada fatto così rapidamente, ma ce lo chiede esplicitamente la Ue perché nelle conclusioni del Consiglio europeo c’è uno specifico riferimento alle raccomandazioni Paese di maggio 2020: i Recovery plan nazionali devono essere coerenti con i suggerimenti fatti in quel documento. E all‘Italia è stato chiesto tra l’altro di migliorare l’efficacia della pubblica amministrazione anche per assicurare che gli interventi per la ripresa non subiscano rallentamenti. E allora: perché non usiamo quel di 10% di fondi che sarà anticipato già l’anno prossimo per attirare una classe dirigente e di funzionari capace di portare risultati? È un investimento, non soldi portati via agli investimenti, e una precondizione per spendere bene.

Il problema delle regole, invece, è stato affrontato con il decreto Semplificazioni che consente di affidare appalti fino a 5 milioni di euro senza gara e modifica le norme su abuso d’ufficio e danno erariale per ridurre la tentazione di “non fare”.
Bene, ma non basta perché la deroga vale solo fino al 2021. E alzare le soglie senza investire sulle competenze vuol dire rischiare di vedere solo i lati negativi della discrezionalità.

Immaginiamo di fare già nel 2021 un forte investimento in capitale umano nella pubblica amministrazione, usando il 10% di anticipo sui sussidi della Recovery and resilience facility. Qual è la mossa successiva?
Ridurre le decine di migliaia di stazioni appaltanti, cosa di cui si parla da anni. Ma non centralizzando tutto in un’unica stazione, tentazione inevitabile per fare in fretta. Così si rischia di non tenere conto delle richieste del territorio e di escludere le piccole imprese. In più se fai un errore in una gara grande lo paghi carissimo. Il Consiglio di Stato l’anno scorso ha detto chiaramente che la dimensione ottimale è provinciale e io concordo: vorrebbe dire avere un centinaio di stazioni con sufficiente cultura del territorio.

Assunzioni nella pa e 100 stazioni appaltanti. Ma poi – dopo aver consultato ministeri, enti locali, Parlamento – chi decide gli obiettivi su cui concentrare le risorse?
I settori su cui investire sono elencati nelle raccomandazioni della Commissione: si citano scuola, università, dissesto, acqua e rifiuti al Sud, trasporto pubblico locale, infrastrutture digitali. E’ quello di cui abbiamo bisogno, prendiamo quella lista. La decisione politica comunque, dati anche i tempi, va centralizzata. Affidandola a un primo ministro che gode in questo momento di fortissimo supporto popolare e deve avere tutto il potere decisionale sull’allocazione delle risorse.

Fatto tutto questo la ripresa e il ritorno alla crescita sono assicurate.
No perché il Recovery ha una grave tara: superata l’emergenza, è previsto che torni in vigore il Patto di stabilità. Ma è per rispettare quelle regole che negli ultimi 10 anni gli investimenti pubblici sono stati tagliati, facendoci arrivare più fragili di fronte al Covid. Quei parametri non consentono allo Stato di intervenire per sostenere l’economia in caso di crisi e impediscono la ripresa degli investimenti privati. Perché un imprenditore non investe se sa che, finita la pandemia, si tornerà a parlare di aumenti di imposte e taglio delle spese. Ma ora l’Europa ci sta dando fiducia e abbiamo una grande occasione: se riusciamo a spendere bene dimostreremo che non abbiamo bisogno di tornare alla logica dei bilanci in pareggio.

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