Va tutto bene, non sono state riscontrate infezioni da coronavirus all’interno del carcere. Le voci che filtrano su eventuali contagi sono soltanto rumors, non c’è nulla di vero. Fuori non è in corso alcuna emergenza”. Banalmente, mentre le autorità carcerarie della prigione di Tora al Cairo, la più temuta in Egitto, cercavano di rassicurare i detenuti, specie quelli più indeboliti e impauriti, attorno spuntavano ripetuti casi positivi al Sars-Cov-2. Sono almeno una decina quelli da considerare ufficiali soltanto dentro alla prigione, non solo tra i detenuti.

Nessuna emergenza fuori, eppure presto l’Egitto raggiungerà i 100mila contagi e i 5mila morti. Tutto tranquillo, anche dentro i padiglioni della prigione, questa la tesi di chi detiene il potere carcerario. Le centinaia di detenuti reclusi nella struttura alla periferia sud della capitale egiziana vivono sotto una sorta di campana di vetro, specie quelli di coscienza come Alaa Abdel Fattah e il ‘nostro’ Patrick Zaki. Nulla filtra e l’obiettivo della sicurezza del penitenziario è proprio questo, tenere all’oscuro i prigionieri sulla reale situazione epidemiologica all’esterno delle alte mura di protezione.

Eppure, anche nei meccanismi più oliati e affidabili, qualche crepa prima o poi si forma. Così hanno iniziato a filtrare informazioni e soprattutto sono emersi casi di positività all’interno della prigione. Alcune di queste sono state raccolte in un report diffuso da Aida Seif el-Dawla, nota psicologa e da anni direttrice del centro per le vittime di tortura e violenze El Nadeem, al Cairo. La sede dell’organizzazione, nel centralissimo quartiere di Downtown, nel 2018 è stata oggetto di un blitz da part della Sicurezza Nazionale, sequestrata e posta sotto sigilli. Nonostante tutto, il centro El Nadeem è sempre attivo: “Ieri ho ricevuto un report molto dettagliato sulla situazione interna al penitenziario di Tora, specie nelle sezioni Skorpion I e II, quella dove sono rinchiusi i prigionieri politici – ha raccontato a Ilfattoquotidiano.it – Il report è stato redatto da qualcuno capace di far uscire il documento, oppure qualcuno che di recente è uscito o è stato trasferito ad un altro centro. Di più non posso dire, per salvaguardare la sicurezza della fonte. Ma solo uno che ha vissuto la realtà carceraria, specie quella di Tora, può essere a conoscenza di particolari così precisi e le notizie emerse in queste settimane su nuovi casi di contagio da coronavirus ne sono la conferma”.

Forse non è un caso che il report sia stato diffuso giovedì, pochi giorni dopo la morte, ancora avvolta nel mistero, del giornalista Mohamed Mounir, stroncato dall’aggravarsi della patologia da Covid-19. Mounir era stato arrestato il 15 giugno scorso e quando è entrato a Tora era in discrete condizioni di salute. Il 2 luglio è uscito dal carcere positivo al Covid e pochi giorni fa è morto.

Entrando nel cuore del report, si nota il goffo tentativo delle autorità carcerarie di minimizzare il problema e rassicurare i detenuti: “Si assiste a un sistematico black-out delle informazioni e delle notizie a Tora – si legge nel rapporto di cui il Fatto è entrato in possesso – Quando qualcuno chiede a un agente o a un funzionario cosa stia accadendo fuori rispondono che va tutto bene. Stessa risposta quando si viene a sapere che ci sono casi sospetti di coronavirus dentro al carcere. A marzo, quando ancora era possibile incontrare e sentire familiari e parenti, all’inizio dell’epidemia, il personale usava mascherine, guanti e ogni dotazione di sicurezza possibile. C’era anche il gel igienizzante. Ad aprile le cose hanno iniziato a cambiare e pian piano tutto è tornato come prima del coronavirus, zero protezioni. Fino a poche settimane fa le autorità carcerarie di Tora smentivano casi positivi, mentre altrove, ad esempio nelle prigioni di al-Liman e Istikbal, erano già ufficiali. Lì, addirittura, erano stati individuati degli spazi per garantire la quarantena dei positivi asintomatici. A Tora nulla di tutto ciò è stato fatto. Le celle sono strapiene, mantenere il distanziamento è impossibile, non c’è il filtraggio dell’aria e in questo periodo dell’anno, con temperature ben sopra i 40°, la vita del recluso è drammatica”.

Nei mille caratteri che compongono il rapporto su Tora, l’anonimo va anche più a fondo del problema: “Di fronte alle ripetute smentite, i detenuti potevano fare poco. Fino a quando a Tora, anche nella sezione Skorpion II, alcune persone sono state trasferite in ospedale per casi sospetti di coronavirus. Non si tratta di due-tre casi, ma di parecchi. Sia guardie che detenuti, in molti casi non si sono più visti lì dentro, mandati in malattia a casa nel primo caso e trasferiti in altre strutture, in quarantena, nel secondo. Le autorità hanno chiuso ulteriormente i canali, ma il virus era ormai entrato. C’è poi la questione delicata dello staff medico interno, assolutamente impreparato per le esigenze legate alla pandemia e per nulla protetto. Mancano i farmaci e quelli che ci sono non servono a nulla, a parte gli antidolorifici. Soltanto una volta alla settimana un medico specialista entra a Tora per controllare la situazione, senza però creare mai quell’allarme necessario per far esplodere il caso. Infine il problema del cibo, in parte preparato internamente dagli stessi detenuti senza alcuna misura di sicurezza. In particolare il pane, grazie al forno di cui il carcere di Tora è fornito, oppure la distribuzione dei vegetali. Tutto viene fatto a mano, ma chi lavora non indossa guanti e mascherine. Di recente dieci prigionieri della sezione Scorpion sono stati trasferiti nella sezione 1, per punizione, perché chiedevano che il personale della cucina indossasse i dispositivi di protezione. Oltre al trasferimento è scattata anche una severa punizione nei loro confronti”.

Terminata l’analisi è il momento delle iniziative da prendere e Aida Seif entra nello specifico assecondando gli argomenti contenuti nel report: “Ci deve essere un fronte compatto a livello di diritti umani di fronte al problema della crisi pandemica all’interno delle carceri egiziane. È necessario mettere in atto una strategia volta a rendere noto il problema, senza peggiorare gli effetti sui detenuti e al tempo stesso organizzare una campagna di solidarietà in grado di uscire anche dai confini egiziani. Il supporto nei confronti dei detenuti deve essere totale e costante. Infine, coinvolgere nell’analisi le famiglie di chi sta trascorrendo una difficile detenzione, renderle pienamente consapevoli di cosa sta accadendo lì dentro. Solo così si può alzare il livello di guardia per prevenire e trattare l’infezione pandemica in modo da evitare preoccupanti derive”.

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