Il tragico collasso autostradale ligure non è l’esito di un destino cinico e baro. L’autostrada dei Giovi da Serravalle a Genova è ancora la camionale inaugurata nell’ottobre del 1935 dal Re Vittorio Emanuele III, a meno di tre anni dalla posa della prima pietra. Allora, Genova contava 650mila abitanti: il suo ruolo di porto principale del Mediterraneo e regina dell’industria pesante reclamava collegamenti rapidi con il nord industriale. Oggi, circa 570mila.

Rispetto al tempo in cui s’incontravano su queste curve le robuste berline Lancia Astura e i potenti camion Alfa Romeo 85G a gassogeno da 110 cavalli che consumavano di 16 chili di legna a chilometro, la novità più saliente sono i perenni restringimenti di corsia e le discusse barriere antirumore. È ragionevole investire nella salvaguardia acustica di edifici in aderenza all’asse stradale, costruiti molto tempo dopo l’entrata in esercizio di quella infrastruttura, nel disprezzo per qualunque ratio urbanistica?

Il blocco circolatorio ligure di questi giorni sta devastando una regione già provata da 50 anni di ignavia e presunzione, contrabbandata per orgoglio natio. È l’esito finale di politiche miopi, conservatrici, indolenti. La Liguria, nelle rare occasioni in cui si è mossa, lo ha fatto in ostaggio a una visione Genova centrica.

E l’unica infrastruttura autostradale oggi prevista nel succoso elenco di opere strategiche del governo Conte è la Gronda: in pratica, una bretella che consenta alla città di surrogare – declassando il vecchio tracciato autostradale – la tangenziale ovest mai costruita dalla comunità locale. Nessuno considera che, anche con questa “grande” opera in esercizio, il blocco attuale si realizzerebbe tal quale.

La tragedia dei trasporti liguri di questi giorni ha però un risvolto meno sgradevole. Permette a qualche avventuroso di attraversare gli Appennini e le Alpi Marittime sulle statali che da Piemonte ed Emilia conducono al mare. Riscoprire i passi della Scoffera e di Cadibona, percorrere il Melogno o il Sassello, il Cento Croci o il Colle di Nava apre il cuore a una mobilità dolce che abbiamo dimenticato. Spalanca gli occhi su paesaggi incantevoli, natura selvaggia, landmark preziosi. E offre l’alibi per spuntini deliziosi.

Sulla Statale 45 di Val Trebbia, dopo aver ammirato a Bobbio l’antico Ponte del Diavolo, consiglio una sosta a Torriglia. Lo scapolo fortunato, può incontrare la bella di Torriglia, mito di più generazioni. Se meno fortunato, l’ex governatore della regione, Claudio Burlando, a cui chiedere lumi sui cinque chilometri della variante Aurelia Bis albisolese, di cui posò la prima pietra nel febbraio del 2012. Una incompiuta che aleggia come un incubo sui savonesi.

Anche per le statali 336 e 28, 29 e 490, 456 e 523 potrà offrire un consiglio privato a chi voglia affrontare l’avventura. Sono tutte strade che, nonostante la funzione di garantire una diffusa rete di comunicazione tra nord e sud, testimoniano il fallimento delle politiche di mobilità nel nord-ovest. Queste arterie sono state sostanzialmente abbandonate, con tracciati spesso immutati da un secolo e attraversamenti pericolosi dei centri abitati.

Tutto ciò ha prodotto un sistema affatto privo di resilienza che, in virtù della mancata manutenzione autostradale, scopriamo perfino poco resistente, con un disastroso impatto sulla logistica e sul turismo. La Liguria ha bisogno di percorsi che evitino l’imbuto di Genova, una città che ha perduto quasi 300mila abitanti in 50 anni, la quasi totalità degli abitanti persi dalla Liguria dal 1971 a oggi.

Genova può anche costruire le tangenziali che non ha mai realizzato, magari a proprie spese, ma gli investimenti pubblici di interesse nazionale vanno concentrati sulle meravigliose statali appenniniche. Soltanto un sistema diffuso di attraversamento della catena costiera può sgonfiare l’intasamento delle strade litoranee, allargare la fascia turistica che oggi non supera il chilometro dalla costa, offrire nuove opportunità di insediamento nei territori collinari.

Scriveva Charles Bukowski che “l’autostrada ti ricorda sempre un po’ com’è la gente. È una società competitiva. Vogliono che tu perda così possono vincere loro. Una faccenda innata che in autostrada viene fuori. Quelli che vanno piano vogliono bloccarti, quelli che vanno forte vogliono superarti”.

Se una nuova stagione di investimenti pubblici può aiutare questo povero Paese a risollevarsi, senza riprendere la via del declino, l’ancora di salvezza non la offrono soltanto le cosiddette “grandi” opere autostradali – un’araba fenice, spesso buona solo a ingrassare gli ingranaggi della finanza creativa – ma le reti infrastrutturali diffuse. L’emancipazione delle vecchie, storiche strade statali fa parte di questa sfida.

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