Gli occhi spiritati di Schillaci per un rigore non dato. La serpentina di Baggio contro la Cecoslovacchia. Le feste in piazza dopo le vittorie azzurre. Notti magiche prima della serata tragica. Napoli divisa. Maradona e Caniggia e Goycochea. Poi l’uscita sbagliata di Zenga e la delusione, forse la più grande di sempre, per l’eliminazione in semifinale. Sono le immagini di copertina di un ipotetico libro dal retrogusto amaro. Titolo possibile: ‘Mondiali Italia ’90, storia di un’occasione persa’. Perché l’eredità del torneo non si misura con il misero terzo posto della nazionale di Vicini. Il flop fu soprattutto organizzativo: tra costi esplosi e ritardi, le opere realizzate (almeno quelle che non sono state abbattute) erano e restano l’emblema dello spreco. Eppure fu un’edizione epocale, anche e soprattutto dal punto di vista sociale e geopolitico. A trent’anni esatti da allora, raccontiamo – a modo nostro – l’Italia, l’Europa e il mondo di quei giorni. Le storie, i protagonisti, gli aneddoti. Di ciò che era, di cosa è restato. (p.g.c.)

Azeglio Vicini non riesce a sorridere. Anche se per lui, sul prato del San Nicola di Bari, ci sono soltanto abbracci. Matarrese, Bearzot, Riva e Brighenti si avvicinano per congratularsi. Lui annuisce e si defila, ringrazia e raggiunge l’arbitro per lamentarsi di un gol annullato a Nicola Berti. È l’unico che non riesce a nascondere l’amarezza. Perché l’Italia ha appena vinto la finale dei Mondiali del 1990. Solo che si tratta della finale “sbagliata”, quella contro l’Inghilterra, quella che mette in palio il terzo posto. Un tombolicchio o poco più. Sono giorni che Azeglio Vicini è l’uomo più criticato d’Italia. Dai tifosi, dai giornalisti, addirittura dai suoi stessi calciatori, da quei ragazzi che aveva forgiato nei suoi dieci anni alla guida dell’Under 21 azzurra e che poi aveva lanciato nella Nazionale maggiore.

Subito dopo la sconfitta ai rigori nella semifinale con l’Argentina, qualcuno gli aveva chiesto se non era arrivato il momento di consegnare la panchina dell’Italia a un allenatore di un grande club. Una domanda che lo aveva fatto balzare sulla sedia. “Provate e poi ve ne accorgerete – aveva risposto – Sarei molto curioso anch’io dì vedere i risultati”. Quindici parole che erano una fiera rivendicazione della propria natura: quella di tecnico federale. Un allenatore che non aveva speso la propria carriera a fare grande un determinato club, ma che si era messo a disposizione della Federazione, che considerava la Nazionale come un patrimonio collettivo da ostendere ai tifosi, l’insegnamento nelle giovanili come una missione di vita. E a chi aveva sottolineato come l’Italia aveva vinto i Mondiali solo quando alla guida c’erano i tecnici federali Pozzo e Bearzot, Vicini si era permesso di rispondere: “Si dimentica di Valcareggi, che ha conquistato un titolo Europeo”.

Il sottotesto è piuttosto chiaro: solo chi si forma all’interno della Federazione riesce a raggiungere traguardi importanti con la Nazionale. E l’apprendistato professionale di Azeglio Vicini era stato modellato proprio su questa idea. La sua prima esperienza è datata 1967/1968, quando si siede sulla panchina del Brescia. L’avventura però dura appena un anno, visto che le Rondinelle si inabissano e retrocedono in Serie B. Qualche tempo dopo qualcuno intervista Eraldo Monzeglio, terzino dell’Italia di Pozzo campione del mondo e allenatore di Vicini ai tempi della Sampdoria. “Chi fra i miei giocatori potrà diventare allenatore? Sicuramente Gino Stacchini – dice – e poi forse Azeglio Vicini, che è forse tatticamente più intelligente di Stacchini ma è uno a cui piace la sicurezza del posto fisso. E infatti si è inserito nello staff della Nazionale”.

È qui che Azeglio inizia il suo vero percorso. Nel 1969 nasce la Nazionale Under 23, che viene affidata a Enzo Bearzot. L’esperimento è un successo, tanto che nel 1975 il Vecio viene nominato commissario tecnico della Nazionale maggiore (anche se fino al 1977 condividerà la panchina con Bernardini). Serve un suo sostituto alla guida degli azzurrini. Così la Federazione sceglie Azeglio Vicini. Dopo appena un anno la rappresentativa viene trasformata in Under 21. Per il cittì non cambia niente, anzi, sente di poter svolgere ancora meglio la sua missione di insegnante di calcio ma, soprattutto, di educatore. “Quando guidavo l’Under 21 della Nazionale sapevo di avere una grande responsabilità – dirà anni dopo al Corriere della Sera – di fronte a me c’erano dei talenti, ma soprattutto dei ragazzi che dovevano essere accompagnati e che vivevano una fase delicata in cui il calcio si mischiava allo studio e agli amori con equilibri sottilissimi”.

La parola chiave, però, è una sola: “Insegnare. L’allenatore deve saper istruire i suoi ragazzi su come si sta dentro e fuori dal campo. La materia di base è il calcio, ma l’educazione non può venir meno perché pochi arriveranno in Serie A, ma ciò che imparano servirà a tutti“. E i risultati arrivano. Quella Under 21 è un bicchiere di acqua fresca nel deserto, è lì che cominciano a crescere Donadoni, Zenga, Mancini, Baggio, Schillaci e Vialli. Ai campionati europei di categoria gli azzurrini arrivano tre volte ai quarti (fra il 1978 e il 1982), poi in semifinale nel 1984 e in finale nel 1986, dove perdono ai rigori contro la Spagna. Quando in quello stesso anno arriva la fine dell’era Bearzot, non si apre neanche un dibattito sul nome del suo successore. Tutti sanno già dove pescare. “Vicini non era un genio – scriverà Mario Sconcerti – ma era tutto il resto. Aveva cultura, competenza, intelligenza e buon senso, amava sperimentare con metodo, cambiare l’idea, non stravolgerla”.

A Euro 1988 gli azzurri vengono battuti in semifinale dell’Unione Sovietica e chiudono terzi ai Mondiali del 1990. La delusione più grande arriva un anno dopo, quando non riusciranno a staccare il pass per gli Europei del 1992. Il 12 ottobre 1991 la Russia ospita l’Italia nell’ultima gara del girone di qualificazione. Gli azzurri devono vincere per volare in Svezia. Finisce 0-0, con Ruggiero Rizzitelli che colpisce un clamoroso palo a botta sicura. Per Vicini è la fine. Così come per la tradizione dei tecnici federali.

Matarrese cerca un grande nome, uno che sia in grado di ridare entusiasmo, che sia il simbolo di una progettualità tutta nuova. E per questo sceglie Arrigo Sacchi. E fra il tecnico di Fusignano e l’ex cittì i rapporti saranno sempre piuttosto tesi. “Anche se ci fossimo qualificati per l’Europeo – ha detto Vicini a Repubblica qualche anno più tardi – mi avrebbero mandato via dopo. Sono stato la prima vittima di Berlusconi, precedendo Zoff che diede le dimissioni per le sue critiche dopo l’Europeo del 2000, perché l’allora presidente del Milan aveva già deciso di mettere Sacchi al mio posto”. E ancora: “Rispetto Sacchi e ho buoni rapporti con lui, anche se abbiamo idee diverse sul calcio. I numeri, però, dicono che con una partita più di lui ho una sconfitta in meno. Mi spiace per Rizzitelli, che ebbe la malaugurata idea di dedicarmi il gol contro la Norvegia nell’esordio di Sacchi. Guarda caso, poi non è stato più convocato”.

La tradizione dei tecnici federali sembra ripristinarsi nel dicembre 1996. Dopo la sconfitta in amichevole contro la neonata Bosnia a Sarajevo, Sacchi lascia la guida della Nazionale fra le polemiche. Per rimpiazzarlo la Federazione decide di puntare su Cesare Maldini che nel suo decennio alla guida dell’Under 21 (dal 1986 al 1996) aveva messo in bacheca tre Europei di categoria. Il fallimento nel Mondiale del ’98, quando l’Italia viene eliminata ai quarti dalla Francia (ma solo ai calci di rigore), mescola ancora le carte. Serve un uomo capace di incarnare l’unità nazionale. E quell’uomo è Dino Zoff, all’epoca dirigente della Lazio. Agli europei del 2000 l’Italia si schianta ancora una volta contro la Francia (anche se stavolta in finale) e Zoff (incalzato anche dalle critiche di Berlusconi) salta.

Al suo posto non viene promosso Marco Tardelli, che aveva appena vinto l’Europeo con l’Under 21, ma viene assunto Trapattoni. Il sogno Mondiale, nel 2002, si infrange agli ottavi contro il Golden gol di Ahn e contro l’arbitraggio di Byron Moreno. Il Trap resta in sella per altri due anni, poi nel 2004 la panchina verrà affidata a Marcello Lippi, il primo grande allenatore di club a vincere un Mondiale con gli Azzurri. E da allora la tradizione dei tecnici federali è diventata solo uno sbiadito ricordo.

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