Appena nata e già rischia di sparire. È l’area marina istituita da Barack Obama il 15 settembre del 2016 che, con un provvedimento del presidente Trump, del 4 giugno, torna a essere una zona di pesca industriale. Si chiama “Northeast Canyons and Seamounts Marine National Monument” ed è uno specchio blu di circa 13mila chilometri quadrati al largo del New England, che custodisce ben 3 canyon e 4 montagne sottomarine, un tempo vulcani. Proprio per le sue caratteristiche geologiche e per la ricchezza di biodiversità è diventato un “monumento nazionale”, il secondo monumento marino degli Stati Uniti, dopo quello delle Hawaii, il Papahānaumokuākea, voluto da Bush nel 2006. E ora, dopo la decisione di Trump, molte associazioni ambientaliste sono sul piede di guerra, come il Natural Resources Defense Council (Nrdc) che spiega come il presidente Obama nel 2016 dichiarò l’area monumento nazionale avvalendosi dell’Antiquities act, una legge firmata da Roosevelt nel 1906, che conferisce al presidente degli Stati Uniti il potere di istituire dei monumenti nazionali – per proteggere patrimoni di grande interesse naturale e culturale – ma che non gli consente di fare il contrario, ossia “cancellare” i monumenti. Questa infatti è una decisione che spetta al Congresso.

Biodiversità e ricchezza del “Serengeti del mare” – Fino ad oggi nello spazio era possibile soltanto la pesca ricreativa, ma dalla Casa Bianca fanno sapere che la crisi economica causata dal Covid-19 rende necessario lo sfruttamento ittico commerciale. E dire che per l’area in questione non era stato un percorso facile: è servito almeno mezzo secolo per prendere consapevolezza della sua tutela. È dagli anni Settanta che nelle sue acque si susseguono spedizioni scientifiche e più i ricercatori s’immergono e più scoprono tesori. E c’è chi ha battezzato la zona il “Serengeti del mare”. “Immaginatevi le vallate del Grand Canyon o le vette delle Montagne rocciose ma sott’acqua – spiega Valentina Asnaghi, ecologa dell’Università di Genova -. E oltre al valore geologico l’area è da considerarsi un vero hotspot, un punto caldo, di biodiversità. Si contano più di mille specie, in particolare più di 70 dei rari e secolari coralli di profondità delle acque fredde. Le attrezzature di pesca li danneggiano irrimediabilmente visto che crescono in tempi lunghissimi”.

Ecco perché l’area è da proteggere – Una ricchezza dei fondali che richiama anche i grandi pelagici: squali, delfini, balene e tonni. Gli scienziati sono convinti che l’area sia una nursery – un luogo per la nascita e lo svezzamento – per delfini e balene, vista la frequenza con cui si osservano i cuccioli. Anche per loro la pesca è una minaccia: “Cetacei, tartarughe marine, squali possono accidentalmente imbrigliarsi nelle reti e morire e l’intervento dell’uomo modifica le rotte di migrazione e le zone di riproduzione”, precisa Asnaghi. Un ambiente ricco ma fragile, minacciato dall’aumento della temperatura e dall’acidificazione degli oceani ed ecco perché a chiederne la tutela con insistenza sono stati oltre 300mila cittadini, 145 scienziati, compagnie di whale watching, associazioni ambientaliste ma anche molti pescatori. Non c’è da stupirsi: le aree marine sono alleate della pesca. “È stato dimostrato che le zone sottoposte a restrizioni diventano ‘sorgenti’ che rendono i tratti di mare circostanti ricchi di pesci, visto che l’eccesso di fauna ittica si sposta altrove alla ricerca di cibo e spazio. Un fenomeno detto spillover, osservato anche in Italia, ad esempio in prossimità dell’Area marina di Portofino”.

Nello specifico, è stato valutato proprio dalla National Oceanic and Atmospheric Administration (agenzia federale che si occupa di clima, oceani e meteo) che nel New England le attività turistiche e ricreative legate all’oceano generano 170mila posti di lavoro per un volume d’affari di 7,4 miliardi di dollari. E affinché la pesca continui a generare ricavi intono agli 1,2 miliardi di dollari, servono aree protette che conservino e rigenerino gli stock ittici sfruttati. “È assurdo – conclude Asnaghi -. Ci siamo tutti resi conto di quanto il pianeta sia tornato a respirare col lockdown, che ha reso la presenza umana meno invadente. Ma adesso non possiamo andare nella direzione opposta: serve ripartire sì con attività economiche, ma sostenibili”.

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